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Crisi e mali di stagione? La soluzione è Bio!

Mentre fuori infuria la bufera della crisi dei consumi, il mercato agroalimentare può ancora trovare un porto sicuro nel settore del biologico. Lo dimostrano i recenti dati rilasciati da Ismea che riportano un aumento del 7% degli acquisti di prodotti organici nel 2012, a coronamento di un ininterrotto decennio di crescita. A guidare la corsa al biologico c’è l’Italia Centrale, seguita dal Nord e Sud. I prodotti più venduti sono stati snack e dolciumi, bibite analcoliche, pasta, cereali, frutta, verdura e latte, con una crescita del 25,5% dell’acquisto nei discount e del 7-10% nel resto dei distributori. Attualmente il biologico italiano vale circa 3 miliardi di euro, ponendoci al quarto posto nella graduatoria europea dei fatturati e al sesto a livello mondiale. Ma chi si nasconde dietro questo rigoglioso marchio verde?

Nel 2011 si sono contati più di 48 mila operatori, tra produttori, trasformatori e importatori, con oltre 1 milione di ettari coltivati a biologico. Le attività di produzione e di trasformazione/distribuzione appaiono polarizzate rispettivamente verso Sicilia, Calabria e Puglia e Lombardia, Emilia Romagna e Veneto.

La filiera del biologico è così strutturata: i produttori vendono direttamente a consumatori o intermediari (grossisti e/o consorzi), i quali gestiscono poi la trasformazione e la commercializzazione indirizzata alla GDO e a canali di distribuzione di diversa natura.

Rispetto alle coltivazioni convenzionali quelle bio sono in media più estese, richiedono più manodopera e generano rese inferiori a causa di una più bassa intensità produttiva. La bilancia di reddito e fatturato è leggermente inclinata a favore degli operatori biologici, grazie a minori costi (meno richiesta di mezzi tecnici), agli aiuti pubblici e dell’UE, a prezzi di vendita più elevati e ai ricavi da attività connesse. Sebbene il metodo biologico sembri una valida alternativa all’agricoltura convenzionale, una conversione è auspicabile solo nel caso di aree a produzione estensiva, mentre le rese troppo basse danneggerebbero coltivazioni intensive quali quelle del Nord.

Buona parte dei prodotti bio passa attraverso la GDO, ove crescono le private labels (EsselungaBio, BioSelex, etc.) e l’incidenza del bio sul totale delle vendite rispetto al passato. I negozi specializzati, infine, completano la catena di distribuzione con un’ampia offerta che include non solo alimentari, ma anche prodotti per l’infanzia, cosmesi e detergenti.

In ascesa anche la ristorazione collettiva (mense scolastiche, aziendali e ospedaliere) e commerciale e le attività agrituristiche ed eno-gastronomiche, che permettono di dare slancio economico e riconoscimento a quei territori rurali spesso tagliati fuori dagli itinerari turistici più in voga.

Si fa spazio anche il concetto di “filiera corta”, mirata a creare un rapporto diretto tra produttore e consumatore attraverso una razionalizzazione delle attività di intermediazione. Esempi sono la vendita diretta, i mercatini rionali, le fiere regionali, le cooperative di consumatori (che beneficiano dell’acquisto di grandi volumi) e l’e-commerce. Le potenzialità sono altissime: abbattimento dei costi (dunque dei prezzi), miglioramento dell’informazione, rilancio dei patrimoni locali e rafforzamento del capitale sociale territoriale.

Le minacce al settore però non mancano: disinformazione, prezzi troppo alti, competizione internazionale e mancanza d’incentivi sfidano di continuo la sua stabilità. Il biologico, tuttavia, sta dimostrando di avere le capacità (e le intenzioni) per affermarsi come modello di sviluppo economico sostenibile ed eco-compatibile, orientato a migliorare il tasso occupazionale, rallentare la fuga dalle aree rurali, costruire una nuova e moderna figura dell’imprenditore agricolo, ma soprattutto teso a beneficio della salute dei consumatori. Perché, parafrasando il filosofo Feuerbach, non dimentichiamoci che siamo quello che mangiamo.

 

Foto: Handworkinghippy/Flickr

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