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“Coronavirus: globalizzazione e servizi segreti”

“Coronavirus: globalizzazione e servizi segreti”, il nuovo saggio del nostro direttore Aldo Giannuli edito da Ponte alle Grazie, è da oggi disponibile in libreria. L’Osservatorio è lieto di anticipare di seguito un breve estratto del saggio, riferito all’analisi dell’eventualità che il coronavirus contribuisca a creare un nuovo ordine mondiale

“Coronavirus: globalizzazione e servizi segreti”, il nuovo saggio del nostro direttore Aldo Giannuli edito da Ponte alle Grazie, è da oggi disponibile in libreria. L’Osservatorio è lieto di anticipare di seguito un breve estratto del saggio, riferito all’analisi dell’eventualità che il coronavirus contribuisca a creare un nuovo ordine mondiale. Augurandovi buona lettura cogliamo l’occasione per invitarvi alla presentazione in anteprima del saggio organizzata da Gianluca Zanella Editing andata in onda in diretta Facebook.

Guerre, pandemie e grandi emergenze sono anche delle “grandi epifanie”: in greco l’epifania è il manifestarsi della divinità, poi, per estensione, è diventato il rendersi evidente di uno stato di cose, lo “svelamento” per eccellenza. E così, gli eventi straordinari palesano quello che è davvero una società, quale sia il carattere del suo popolo, e le qualità delle sue classi dirigenti, quali siano i suoi punti di forza e i suoi punti di crisi. Questi eventi strappano molte maschere manifestando la nuda verità.

Anche questa volta è così, tanto per la pandemia in sé, quanto per il ciclo di crisi economica e sociale che apre, e lo “svelamento” riguarda soprattutto l’ordine politico ed economico che ha regnato sin qui.

Iniziamo dalla incombente crisi del commercio mondiale, che si immagina prodotta dalla pandemia. E la cosa coglie un dato verissimo, ma il problema non è nato con la pandemia: era già presente almeno da un paio di anni, con la guerra doganale fra Usa da un lato e Cina ed Europa[1] dall’altro o se guardiamo bene, da almeno un decennio con la tendenza al decoupling (il disaccoppiamento fra l’economia Usa e quella cinese) che oggi il dopo Covid accelera. Le politiche di Trump non sono motivate solo da ragioni di politica interna, come la difesa dell’industria dell’auto americana, concentrata negli stati della rust belt che gli hanno regalato la vittoria nel 2016. Ci sono anche ragioni geopolitiche di maggior peso. A partire dall’ingresso della Cina nel Wto, gli Usa sono stati sostenuti dall’acquisto massiccio di titoli di stato da parte della Cina, diventata il luogo privilegiato delle delocalizzazioni delle grandi imprese americane ed europee. Un equilibrio che induceva a chiudere un occhio sullo spionaggio industriale cinese.

 La sempre maggiore dipendenza degli Usa dall’industria cinese è apparsa sempre più intollerabile sin dai tempi della presidenza Obama, man mano che la Cina si è palesata  come rivale geopolitico.

Inoltre, lo scottante tema della Brexit ha contribuito a creare difficoltà commerciali fra il continente ed il Regno Unito.

 Dunque, il commercio internazionale era già in serie difficoltà prima ed è facile dedurre che esse aumenteranno dopo la pandemia. Ad esempio, l’improvvisa scarsità di componenti provenienti da Cina, India e Brasile, ha bloccato intere filiere produttive (prima di tutte quella dell’auto) anche al di là del lockdown domestico[2]

 Problema che minaccia di ripresentarsi in qualsiasi altro momento o per una nuova epidemia o per una guerra locale o per altre ragioni. Quel che induce a riflettere sul modello della “fabbrica globale” alla ricerca, quantomeno, di camere di compensazione in caso di una nuova crisi.

 Peraltro, è plausibile che alcuni recenti potenze economiche (Cina in testa) saranno indotte a dedicare maggiore attenzione allo sviluppo del mercato interno, per effetto della crisi che rallenterà le esportazioni.

 Tuttavia, il passaggio ad un mondo di Stati sostanzialmente autarchici, con un commercio internazionale ridotto ai margini, non appare auspicabile a nessuno. 

 Dunque, il commercio globale riprenderà, ma più grazie all’intervento dei governi che per la forza propulsiva del mercato.

 E questo ci porta alla questione del ruolo dello Stato. Per quasi trenta anni ci siamo sentiti raccontare che lo stato nazionale è una realtà in via di estinzione[3], che non ha più una reale funzione ordinatrice e che è destinato ad essere sostituito, da un lato, dalle logiche (pretesamente) automatiche del mercato, dall’altro dalla rete degli organismi sovranazionali (dal Fmi all’Onu ed alle sue agenzie, alle corti internazionali, alla Banca Mondiale eccetera.) La pandemia è stata uno schiaffo in pieno viso ai sostenitori di queste mitologie a cominciare dal ruolo degli organismi internazionali che si sono rivelati strutture sempre meno tecniche e neutre, e semplici proiezioni delle grandi potenze a cui fanno riferimento.

Basti pensare all’inutilità dell’Oms in bilico fra Cina ed Usa. L’Onu non ha neppure riunito il Consiglio di sicurezza, nonostante l’evidente riflesso sulla sicurezza mondiale di questo stato di cose.

 La Bce ha messo un tempo sproporzionato per approvare il Recovery Fund, per poi decidere che diverrà operativo dal 2021, quando la situazione richiederà ben altro. In ogni caso, esso sarà prevalentemente un vettore di trasformazione del debito.  C’era stata la proposta spagnola che proponeva di creare un fondo di 1.500 miliardi di euro, fondato attraverso lo stesso meccanismo del budget dell’Ue, per erogare sussidi – e non prestiti – agli Stati membri in base al danno subito dalla pandemia. Non è passata per il veto del blocco del nord (olandesi, finlandesi ecc.), cioè perché la Bce è una proiezione della potenza tedesca e per nulla la banca comune degli europei.

 Il Fmi e la Banca Mondiale non sanno ancora cosa fare di fronte alla crisi mondiale che si prepara. In piena pandemia, l’autorevole rivista “Foreign Policy” (fondata da Samuel P. Huntington e Warren Demian Manshel) ha riferito di incontri del Fmi e della Banca Mondiale che ipotizzavano un “Bailout pandemico mondiale”. Cioè un intervento per circa 8.000 miliardi. Ma nello stesso tempo, hanno fatto richiesta di aiuti al Fmi 100 paesi (e il resto verrà in seguito). Il bailout sarebbe strutturato attraverso gli Special Drawing Rights (Sdr), cioè la moneta del Fmi basata sul paniere composto da dollaro, euro, renminbi, yen e sterlina e non sarebbe un prestito, ma un accesso di ogni stato membro del Fmi a tale paniere. Tuttavia, occorre considerare che (come afferma l’attuale direttore del Fmi, Kristalina Georgieva) per fronteggiare le esigenze dei 165 paesi più poveri, occorrerebbero 2.500 miliardi, secondo una stima assai prudenziale. Le disponibilità del Fmi non basterebbero anche solo a questo. Per questo si è proposto di aumentare il fondo di 1.000 miliardi (sempre calcolati in base alla moneta “sintetica” del paniere). Nulla lo impedirebbe, solo che nel Fmi si vota in base alle quote di ciascun paese, per cui, gli Usa hanno circa il 17% delle quote, il Giappone il 6,56%, la Cina il 6,49%, la Germania il 5,56%, la Francia il 4,29%, l’Uk il 4,29%, l’Ialia il 3,21%, l’India il 2,79%, la Russia il 2,75%, il Brasile il 2,35%, per cui i primi quattro paesi dispongono del 36% circa dei voti e poi, via via gli altri.

 Per cui, difficilmente sarebbe possibile una maggioranza se i quattro di testa fossero unanimemente contrari e, comunque gli Usa, potendosi giovare del blocco anglofono, sfiorano da soli il 28%, per cui, di fatto, dispongono di una base di partenza che gli assicura un vantaggio difficilmente recuperabile. Di fatto, il tavolo in cui si prenderanno le decisioni (sempre che si giunga ad un accordo e non ci tocchi assistere ad uno scontro generalizzato) sarà largamente condizionato da Usa, Cina e Giappone con il vertice Fmi nelle vesti di mediatore e, forse, per buon cuore, sarà ammessa, in posizione servente, la Germania, che non ha la lungimiranza di mettersi, insieme alla Francia, alla testa del blocco Ue (che, in teoria, disporrebbe di più del 20% delle quote). Ma questo presupporrebbe una capacità strategica di cui non sospettiamo capace Berlino ed i suoi politici. Nel negoziato, a trovarsi nella posizione più scomoda, sarà proprio l’Europa, incapace strutturalmente di unità, e condizionata dalla sua “moneta senza Stato” (lo “sciocco esperimento” come fu chiamato, con qualche ragione, dagli americani). Una moneta che ha tolto agli Stati la sovranità monetaria (e con questo la manovra sul cambio), soluzione per la quale la Bce è formalmente indipendente dagli stati nazionali, ma di fatto è condizionata dal club del nord germanocentrico.

Dunque, quale sarà il potere contrattuale dei singoli Stati europei in queste condizioni? Di fatto l’unico soggetto a poter rappresentare qualcosa è la Germania, con qualche intermittente influenza francese. Ma quanto reggerà questo equilibrio di fronte dello stress politico, economico e monetario dei prossimi mesi? Converrà ancora ai paesi latini restare nell’Euro? Anche l’uscita di uno di essi destabilizzerebbe l’esistenza stessa di Ue ed Euro.

Ancora una volta, è la logica di potenza degli stati il vero motore della rete degli organismi sovranazionali e la “magia del mercato” non può nulla in proposito.

Questo inizia ad esse percepito anche dai popoli (in particolare quelli europei, unici così ingenui a credere nella favola della fine degli stati nazionali) che, con la pandemia, hanno iniziato a capire che l’unico punto di riferimento per difendersi da essa è il proprio Stato nazionale. Perché la rete di protezione internazionale non esiste (basta constatare il completo fallimento dell’Oms) e gli Stati stanno procedendo in ordine sparso, ognuno per suo conto senza neppure l’ombra di un coordinamento o scambio di informazioni nella ricerca. Ed i cittadini, nel momento del bisogno, trovano solo lo Stato in grado di difenderli e, non a caso, nei paesi in cui la sanità è stata privatizzata o semi privatizzata (almeno per quel che riguarda i paesi industrializzati) l’epidemia tocca le sue punte massime.

Poi, magari, si scopre che medicine, disinfettanti, presidi sanitari ecc. non sono disponibili quasi dappertutto perché li producono solo cinesi ed indiani ed i primi hanno dovuto far fronte alla loro epidemia e chiudere anche la produzione in molti centri, i secondi hanno adottato la linea del “prima gli indiani”[4], per cui, la globalizzazione neoliberista ha spazzato via anche questa illusione sulla “magia del mercato”.

Dunque, gli Stati nazionali non sono affatto ferri vecchi da abbandonare, ma hanno una loro precisa funzione di rappresentati ed organizzatori degli interessi nazionali, che non si sono affatto dissolti nell’indistinto mare degli interessi mondiali.

 Il magico mercato, che già aveva dato pessima prova di sè dodici anni fa, oggi appare impotente di fronte ad una crisi che invoca decisioni politiche. E, dunque, il prossimo ordine mondiale sarà basato su più Stato e meno mercato. Ma già questo segna un indebolimento dell’egemonia americana la cui architettura si fondava sul superamento dello stato nazionale (degli altri) ed il predominio della rete degli organismi “globali” alle dipendenze degli Usa.

Estratto tratto dal Capitolo 3 del saggio “La crisi della globalizzazione: un nuovo ordine mondiale?”, pp. 88-94.


[1] Si parla molto della guerra doganale fra Cina ed Usa, ma è tenuto molto sotto tono l’inasprimento doganale Usa contro molti prodotti europei, a cominciare dalle auto. Peraltro la guerra americana all’auto europea era già iniziata nel 2014 con lo scandalo del diesel Volkswagen appositamente montato.

[2] Giuliano Ferraino Volkswagen e Ford le fabbriche ferme in “Corriere della sera” 18 marzo 2020 p. p.9

[3] Si vedano Paul Kennedy Il Mondo in una nuova era Garzanti, Milano 1993; Robert Cooper La fine delle Nazioni Lindau Torino 2004 .

 Un’utile rassegna del pensiero sociologico in materia (sino agli anni ottanta che hanno posto le basi del pensiero della globalizzazione ) Daniele Petrosino Stati nazioni etnie  Franco Angeli, Milano 1991

[4] D’altro canto in Italia abbiamo toccato il ridicolo del “prima i pugliesi” per sequestrare un po’ di materiale sanitario, che sarebbe servito di più altrove (come pugliese me ne vergogno) a conferma del fatto che di fronte ad un pericolo comune non c’è federalismo o regionalismo che tenga.

Foto di Syaibatul Hamdi da Pixabay 

 

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