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Consulta, sacra opacità e opaca sacralità

Egregio Titolare,

approfitto della sua ospitalità per trattare ancora una volta di trasparenza: questa volta riferita non alla pubblica amministrazione, ma alle decisioni della Consulta.

di Vitalba Azzollini

 

In Italia non viene data divulgazione ufficiale alle opinioni dei singoli giudici qualora discordi rispetto alla decisione della maggioranza della Corte o ad alcune delle motivazioni poste a suo fondamento: ciò a differenza di Stati Uniti, Gran Bretagna e altri Paesi, ove il giudice dissenziente può esprimere e spiegare la propria contrarietà alla determinazione assunta dal collegio (dissenting opinion) ovvero, anche quando condivida la conclusione raggiunta, può comunque esporre le ragioni per cui reputa che essa avrebbe dovuto poggiare su argomenti diversi (concurring opinion).

L’assenza nell’ordinamento italiano di previsioni in materia di dissenting o concurring opinion è solo in parte un retaggio storico (discende da disposizioni precedenti lo Statuto Albertino). Per altri versi, essa è imputabile a una concezione quasi divina del diritto: attribuire rilevanza a eventuali opinioni confliggenti svilirebbe l’aura sacerdotale che ammanta il Giudice delle Leggi, minandone l’autorevolezza. Più banalmente, qualcuno reputa che ogni tipo di “personalizzazione” potrebbe inquinare la parvenza di oggettività della decisione.

Ciò premesso, è forse il caso di porsi una domanda: in un’epoca in cui la trasparenza è il denominatore comune di slogan di governanti e opposizioni, nella consapevolezza condivisa – ma comunque poco e male concretizzata – che il cittadino abbia il diritto di essere informato su quanto attiene alla “cosa pubblica”, ha ancora senso il segreto sulle opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali?

Lei ricorderà, egregio Titolare, ad esempio, le discussioni sorte a seguito della decisione della Consulta sul blocco della perequazione di determinate pensioni; e, negli ultimi giorni, starà assistendo a quelle sulla decisione della Corte circa l’Italicum (della quale, comunque, devono ancora essere pubblicate le motivazioni). La conoscenza dell’orientamento dei giudici in minoranza permetterebbe di apprezzare argomentazioni qualitativamente pari a quelle diffuse ufficialmente.

La disclosure, quindi, fornendo un utile contributo a ciò che qualcuno ha definito “marketplace of competing ideas”, consentirebbe di innalzare il livello (non sempre edificante) dei commenti che seguono a ogni sentenza di particolare importanza. Non va, peraltro, sottovalutata la circostanza che il segreto sulle dissenting opinion costringe a equilibrismi argomentativi chi redige le motivazioni ufficiali, affinché esse possano riflettere la mediazione avvenuta all’interno del collegio giudicante. La divulgazione di tali opinioni consentirebbe una più chiara esposizione delle ragioni su cui si basa la scelta effettuata, specularmente alla chiarezza con cui verrebbero rese note le ragioni diverse.

Si consideri, inoltre, che le decisioni della Consulta possono operare alla stregua di nuove leggi, come la sentenza su Italicum ha dimostrato, da ultimo, ancora una volta: sempre più frequentemente i giudici devono supplire a ciò che la politica non sa, non vuole o non riesce a fare. Da tempo l’ordinamento impone che l’iter legis, quando svolto da un potere diverso da quello legislativo – vale a dire dal governo – debba essere improntato a determinati criteri di trasparenza.

La ratio è di immediata evidenza: chi esercita una funzione che non gli è propria deve renderne conto in maniera stringente. In particolare, in un’apposita relazione allegata al provvedimento normativo, deve esporre l’analisi delle diverse opzioni di intervento considerate, gli elementi favorevoli e contrari che ognuna presenta, le valutazioni poste a fondamento della decisione adottata, le ragioni per cui le altre ipotesi sono state scartate. Non si vede, dunque, il motivo per cui la medesima trasparenza non debba connotare le deliberazioni assunte da un soggetto diverso dal legislatore, qual è appunto la Corte, ma atte a produrre gli effetti di vere e proprie leggi.

Una osservazione finale, caro Titolare: uno degli sport nazionali è divenuto ultimamente il lancio delle congetture circa le posizioni dei componenti della Corte – anche in considerazione dell’inclinazione politica di ciascuno di essi – specie in occasione delle pronunce destinate ad avere maggiore impatto. La trasparenza sulle motivazioni del voto reso dai giudici dissenzienti si contrapporrebbe, in modo serio e istituzionale, alla ridda di illazioni di un certo giornalismo che trasforma in gossip le sentenze costituzionali più attese. Sono queste pratiche mediatiche, in epoca di fake news sempre più frequenti – non certo le informazioni rese correttamente circa le maggioranze e le minoranze interne al collegio e le rispettive ragioni contrapposte – ciò che mina l’autorevolezza della Corte.

A questo punto, Egregio Titolare, si starà chiedendo come mai continuino a persistere certe resistenze, specie da parte di giudici costituzionali, circa la divulgazione delle dissenting o current opinion. Il fatto è che la trasparenza comporta come conseguenza la sindacabilità di qualunque tipo di “potere” ne venga reso oggetto: e anche quando quest’ultimo è ineccepibile nel proprio modo di operare – come non si dubita sia la Consulta – è portato a reputare che tale trasparenza costituisca quasi una sorta di minaccia. Ciò potrebbe essere comprensibile in un momento storico in cui, come accennato, il sensazionalismo mediatico prevale sulle analisi ponderate.

Ma quel sensazionalismo viene alimentato proprio dall’opacità che talora connota la gestione del potere – per la mancanza di una vera cultura del “rendere conto” – sì che poi ogni dettaglio, quando “scoperto”, finisce per essere amplificato, distorcendo anche le realtà più lineari. Dunque, la persistenza nella difesa del segreto, mediante “alibi” variegati, alimenta la dinamica descritta: e così avanti, all’infinito. Del resto, l’Italia è quel Paese che continua ad avvitarsi nei propri circoli viziosi come lei, caro Titolare, dimostra costantemente.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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