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Come e da dove Israele potrebbe attaccare l’Iran

Nel congetturare e discorrere di analisti geopolitici e strateghi militari sulla realizzabilità di un attacco israeliano ai siti nucleari iraniani nelle settimane di settembre e ottobre che precedono le elezioni statunitensi s’accavallano considerazioni diplomatiche e tecniche. Il supponente “fai da te” che Israele può apprestarsi ad attuare non potrà produrre danni simili a quelli che i caccia statunitensi, equipaggiati con ordigni ad alta penetrazione di recente generazione ("massive ordnance penetrator", ben più distruttivi delle "bunker buster"), potrebbero ottenere. Finora Tel Aviv non possiede questo potenziale distruttivo non atomico e non può utilizzarlo.

In più i suoi aerei da combattimento F16I e gli F15I a lungo raggio nel percorrere rotte di oltre 2000 km che li separano dai possibili obiettivi, necessitano di rifornimenti in volo, perlomeno nella fase di rientro alle basi. Quest’operazione compiuta da velivoli fornitori di carburante deve necessariamente essere compiuta a velocità ridotta, rallentando l’azione ‘mordi e fuggi’ col rischio dell’intercettazione di aerei nemici e di controffensive immediate che scatenerebbero battaglie nei cieli. Già da tempo si discute su quali potrebbero essere questi cieli, quale via aerea sceglierebbero le squadre d’attacco israeliane. Tre le ipotesi.

La prima e più probabile: un volo fra l’isola di Cipro e la Siria, procedendo attraverso il confine turco-siriano, via peraltro già percorsa durante l’operazione “Orchard”, quando nel settembre 2007 l’aviazione dell’allora premier Olmert colpì il complesso (forse) nucleare siriano di Al-Kibar. Diventa una variante al disegno elaborato nei mesi scorsi che prevedeva il passaggio sul solo spazio aereo turco.

Un secondo varco s’ipotizza sui cieli di Giordania e Iraq. Via praticabile perché Amman non può difendere con armi appropriate i suoi confini e la stessa Baghdad non ha strumenti per contrastare la tecnologia dei top gun israeliani. Ma il governo Maliki, vicino alla comunità sciita, potrebbe allertare i colleghi iraniani dell’operazione in corso, e in questi casi anche una manciata di minuti può risultare utile alla controffensiva che consisterebbe nell’inseguire e cercare di colpire gli incursori, non avendone potuto contrastare l’offensiva.

Un terzo percorso può svilupparsi sulla penisola arabica, contando sull’avversione della monarchia saudita verso il concorrente regionale, antitetico sul fronte economico, politico e religioso. Ben più che per Giordania e Iraq una simile scelta di Riyad incrinerebbe in modo irrecuperabile i già problematici rapporti di quella monarchia con diversi Paesi arabi e con parte del mondo islamico.

Magari re Abdullah e la sua corte sarebbero lieti di sapere colpito il potenziale di ricerca nucleare iraniano, però una tanto esplicita connivenza saudita riceverebbe la censura di alcune diplomazie internazionali e risposte dure dall’esercito iraniano e dai pasdaran con la già paventata chiusura dello stretto di Hormuz e l’attacco ai pozzi estrattivi. Un panorama apocalittico che smuoverebbe le potenze mondiali come per la crisi Saddam-Kuwait.

Così il corridoio siriano appare il tragitto maggiormente praticabile proprio in relazione al clima di guerra che s’è sviluppato in quel pezzo di Medio Oriente, complice il conflitto fra i lealisti di Assad e i ribelli armati dall’estero, la volontà di attori occidentali e di potenze regionali come la Turchia di attaccare militarmente Damasco. La cui aviazione è troppo occupata nel proprio conflitto per infastidire i caccia d’Israele nel loro possibile razzente passaggio sui cieli siriani. Israele può sperare nel caos di Aleppo e dintorni per affondare i suoi colpi su Bushehr o Isfahan. Attuando un cinico gioco delle parti dove ciascuno persegue il suo fine.

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