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Cittadinanza, ius sanguinis o ius soli?

Cittadinanza, ius sanguinis o ius soli? Per capire meglio la disciplina del diritto di cittadinanza nel nostro Paese e quello che la riforma annunciata potrà comportare a livello legislativo e sociale.

Uno dei tanti dibattiti che, ormai da settimane, animano la politica italiana è la possibilità di una nuova legge che riformi le modalità di acquisizione della cittadinanza all’interno del nostro Paese. Il tema rappresenta qui l’occasione per capire qualcosa in più sulla disciplina del diritto di cittadinanza nel nostro Paese e la distinzione tra “ius soli” e “ius sanguinis”, analizzando quello che la riforma tanto annunciata potrà comportare a livello legislativo e sociale.

Attualmente le norme che regolano la cittadinanza sono disciplinate all’interno della Legge n° 91/1992 e prevedono diverse modalità di acquisizione della cittadinanza medesima. Il primo metodo è quello rappresentato dal cosiddetto “ius sanguinis”, in base al quale il figlio nato da padre o madre italiana è automaticamente considerato italiano. Viene equiparato al figlio naturale quello adottato (infatti, se leggiamo l’articolo 3 comma 1 della predetta Legge noteremo che le due figure equivalgono perfettamente).

Come accade in molti altri Paesi dell’Unione Europea, questo metodo rappresenta la regola per poter acquisire la cittadinanza. Una scelta legislativa ovvia se si pensa che la cittadinanza rappresenta il vincolo più stretto tra una persona e uno Stato. Essere cittadini di un determinato Paese, infatti, comporta essere titolari di determinati diritti (i cosiddetti diritti di cittadinanza) tra i quali rientrano: diritti civili (libertà personale, di movimento, di riunione, di coscienza e di religione…); diritti politici (diritto di voto e diritto a presentarsi come candidato politico); diritti sociali (diritto all’istruzione, alla protezione sociale contra la malattia, la vecchiaia, la disoccupazione…).

Ovviamente, accanto ai diritti vi sono sempre dei doveri: la ormai decaduta leva militare, il dovere (qualificato nel nostro ordinamento anche come diritto) di voto e così via. Attribuire questi diritti e questi doveri comporta allargare il tessuto sociale di uno Stato ed è evidente che gli ordinamenti preferiscano predisporre una rigida selezione nel conferire la cittadinanza. Lo “ius sanguinis” è il metodo che da sempre riesce meglio a rispondere a questa esigenza selettiva. Tuttavia, come scrivevo precedentemente, lo “ius sanguinis” è la regola e, come ogni regola che si rispetti, prevede delle eccezioni. La Legge n° 91/1992, infatti, dispone altri metodi per acquisire la cittadinanza.

Innanzitutto vi è la possibilità per lo straniero di acquisire la cittadinanza sposando un cittadino italiano e risiedendo sul territorio del nostro Paese per almeno 2 anni dalla data di celebrazione delle nozze, ovvero dopo tre anni dalla data di celebrazione delle nozze se i coniugi risiedono all’estero. In secondo luogo, è possibile acquisire la cittadinanza per residenza sul territorio italiano (10 anni in caso di cittadino extracomunitario e 4 anni in caso di cittadino europeo). Infine, si acquista la cittadinanza italiana qualora l’interessato, nato in Italia e ivi residente ininterrottamente fino ai 18 anni, ne faccia richiesta entro i 19 anni. Queste sono le principali modalità di acquisto della cittadinanza accanto alle quali ne esistono numerose altre più specifiche. Per ogni eventuale approfondimento rimando al testo della Legge n° 91/92.

kyenge

La riforma tanto auspicata dal nuovo ministro all’Integrazione Cécile Kyenge stravolgerebbe il quadro legislativo fin qui delineato, imponendo come regola di acquisto della cittadinanza italiana lo “ius soli” e non più lo “ius sanguinis”. In tal modo si permetterebbe al bambino di genitori stranieri nato in Italia di essere considerato cittadino italiano fin dalla nascita e non solo al compimento dei 18 anni. Una scelta logica che, però, non convince tutti.

La razionalità di una simile scelta legislativa risiede nel fatto che un bambino, figlio di genitori stranieri, che nasce e cresce in Italia, non può considerarsi diverso da un qualunque altro bambino che nasce in Italia da padre o/e madre italiani. Entrambi frequentano la stessa scuola elementare, media e superiore; entrambi magari giocano nella stessa squadra di calcio e partecipano alla vita della loro comunità. A fronte di una tale situazione, sembra a dir poco schizofrenico che il Legislatore italiano non conceda al primo la cittadinanza italiana fin dalla nascita solo in virtù del fatto che i suoi genitori sono stranieri.

È anche vero che, rispetto a questa posizione tanto logica e razionale, prende il sopravvento un “istinto patriottico” di conservazione e preservazione di un certo tessuto sociale che, anche a fronte dei flussi migratori, andrebbe irrimediabilmente perso. Tuttavia, parlare oggi di “istinto patriottico di conservazione” può apparire anacronistico e quasi evocativo di non così remote politiche razziste; ma nel farlo non mi discosto poi molto dalla realtà. Infatti, se analizziamo brevemente la disciplina sulla cittadinanza in Europa, noteremo che la regola generale è quella dello “ius sanguinis”. Solo recentemente alcuni Paesi europei hanno adottato dei sistemi “misti” caratterizzati da una maggiore elasticità.

Un esempio in questo senso è dato dalla Germania dove la regola continua a rimanere quella dello “ius sanguinis”, ma le procedure di acquisizione della cittadinanza sono decisamente più rapide e snelle di quelle italiane: dal 2000, infatti, è sufficiente che uno dei due genitori abbia il permesso di soggiorno permanente da almeno tre anni e viva nel Paese da almeno otto anni per concedere al minore straniero la cittadinanza, o per matrimonio con cittadino tedesco dopo tre anni. La legislazione francese prevede invece il doppio “ius soli”, che garantisce l’ottenimento della cittadinanza per chi nasce sul territorio nazionale da stranieri a loro volta nati sullo stesso territorio.

Per trovare legislazioni che si fondano unicamente sullo “ius soli” è necessario andare oltreoceano e approdare sulle coste di Stati Uniti, Canada, Argentina e Brasile. In questi Stati, infatti, è cittadino chiunque nasca sul territorio del Paese indipendentemente dal fatto che i genitori ne siano o meno cittadini. Un’ovvia scelta legislativa se si pensa alla storia di questi Paesi che da sempre si fonda sui flussi migratori favoriti dalla vastità geografica delle loro terre. Una situazione politico-geografica-storica completamente differente da quella europea che, dunque, spiega perfettamente i due diversi metodi di approccio.

Come scrivevo nell’incipit, questo tema è uno dei tanti argomenti che attualmente vengono dibattuti nelle aule parlamentari italiane, ma che sarebbe bene non lasciar disperdere nel grande calderone della politica date le importantissime conseguenze sociali e antropologiche che una simile riforma inevitabilmente comporterà.

Chi si richiama all’Unione europea per cercare un qualche “consiglio” sbaglia. Da sempre la Ue non entra in questioni prettamente nazionali. Vi è un limite oltre il quale la politica legislativa europea non può andare e questo limite è rappresentato da tutti quei temi, come la cittadinanza, di stampo squisitamente nazionale. Lo stesso Commissario Ue alla Giustizia ribadiva questa posizione, dichiarando che la scelta di introdurre lo “ius soli” o meno è competenza dei Paesi membri e non è una questione che ricade sotto la responsabilità dell’Unione europea.

I parlamentari italiani, dunque, dovranno assumersi la piena responsabilità di tutte quelle conseguenze che l’approvazione di una simile riforma inevitabilmente comporterà. A mio parere questa riforma (se mai ci sarà) non sarà la causa del mutamento sociale del nostro Paese, ma sarà solo l’acceleratore di una trasformazione che è in atto ormai da tempo. Modificare la disciplina sulla cittadinanza a favore dello “ius soli” permetterà finalmente di adeguare la realtà giuridica a quella sociale, garantendo una tutela a persone che oggi sono solo cittadini di fatto e non di diritto.

 

 

 

 

Scritto da Marcello Bonazzi

Marcello Bonazzi

Marcello Bonazzi è nato a Lodi nel 1987. Laureato presso l’Università di Pavia in Diritto Internazionale, attualmente svolge la pratica forense presso uno studio legale. E’ attivista di Amnesty International e membro della redazione di Segnali di Fumo.

 

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