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Chini nei campi, i lavoratori migranti senza diritti nell’agricoltura italiana

 

Venti, quando va bene 30 euro per una giornata di lavoro: paga oraria media 3.75 euro che, nel caso di turni di lavoro superiori alle dieci ore, scende sotto i tre euro all’ora.

Sempre che i soldi te li diano tutti. A “Sunny”, un lavoratore migrante dell’India, non è andata così:

“Lavoro 9 -10 ore al giorno dal lunedì al sabato, poi cinque ore la domenica mattina, per 3 euro l’ora. Il datore di lavoro mi dovrebbe pagare 600-700 euro al mese. Negli ultimi sette mesi, però, mi ha dato solo 100 euro al mese per le spese. Non ho un contratto con il datore di lavoro, quindi non posso andare via perché perderei il denaro. Non posso andare alla polizia perché non ho documenti. La mia sola opzione è aspettare di essere pagato”.

E a un certo punto, i datori di lavoro scompaiono, come nel caso di “Baba”, un lavoratore migrante del Ghana:

“A volte ci si mette d’accordo per 25-30 euro, ma alla fine della giornata ti danno 15-20 euro. A me è successo tre o quattro volte. Due volte mi è successo che il datore di lavoro mi ha detto di tornare il giorno dopo per essere pagato a lavoro finito; ma il giorno dopo non era più sul posto di lavoro e non è tornato. Non sono stato pagato per niente”.

A questo punto, qualcuno di voi starà pensando: “Non gli sta bene? Tornassero a casa loro”, “Il lavoro agli italiani!”, “Qui c’è la crisi, che venite a fare!”.

Il punto è che l’agricoltura italiana dipende fortemente dalla manodopera straniera migrante. Secondo il Dossier statistico Immigrazione 2011 della Caritas/Migrantes, nel 2010 i migranti regolari hanno svolto il 23.6 per cento delle giornate lavorative totali in agricoltura nel nostro paese. Le statistiche ufficiali, tuttavia, non tengono conto del lavoro dei migranti irregolari e dei migranti “lavoratori non dichiarati”, cioè i braccianti regolari il cui datore di lavoro non ha dichiarato il rapporto di lavoro alle autorità, per evitare di pagare tasse e contributi previdenziali.

Allo sfruttamento del lavoro dei migranti nel settore dell’agricoltura in Italia, molto diffuso nel centro-sud, è dedicato un rapporto pubblicato oggi da Amnesty International in occasione della Giornata internazionale dei migranti.

I lavoratori migranti ricevono paghe inferiori di circa il 40 per cento rispetto al salario minimo. Le vittime dello sfruttamento del lavoro sono migranti africani e asiatici e, in alcuni casi, cittadini dell’Unione europea (soprattutto bulgari e rumeni) e cittadini di paesi dell’Europa orientale che non fanno parte dell’Unione europea (tra cui gli albanesi).

La ricerca di Amnesty International si è concentrata in particolare nella provincia di Latina e nel casertano.

Secondo il contratto provinciale concluso tra sindacati e organizzazioni di imprenditori agricoli, i lavoratori agricoli dell’area di Latina dovrebbero lavorare 6.5 ore al giorno, sei giorni alla settimana, per un salario orario lordo di 8.26 euro (tra 5.60 e 6.60 euro al netto delle tasse). Quando Amnesty International ha visitato l’area di Latina, nel giugno 2012, molti lavoratori agricoli indiani lavoravano 9-10 ore al giorno dal lunedì al sabato, poi mezza giornata la domenica mattina, per circa 3-3.50 l’ora. Alcuni lavoratori, tutti con permessi di soggiorno validi, hanno dichiarato di lavorare sei giorni alla settimana per 4-5 euro l’ora. Solo uno dei 25 lavoratori migranti intervistati da Amnesty International ha affermato di essere pagato 8 euro l’ora.

L’area di Caserta ospita ufficialmente circa 23.000 cittadini stranieri (compresi cittadini dell’Unione europea), il 2.5 per cento della popolazione. La percentuale reale, compresi i migranti irregolari, è probabilmente molto più alta. Ad esempio, la popolazione straniera di Castel Volturno è ufficialmente di 2900 persone su un totale di 23.000 abitanti; in realtà, le stime raggiungono le 7000 persone.

La paga minima per un lavoratore agricolo nell’area di Caserta, contrattata fra le parti sociali, è di 39.91 euro lordi per 6.5 ore di lavoro (5.70 euro l’ora). Tuttavia all’alba sulle rotonde, ossia in quegli uffici di collocamento illegali dove ilcaporalato la fa da padrone il potere contrattuale dei lavoratori migranti è praticamente inesistente, la paga standard per una giornata di lavoro (dalle 8 alle 10 ore) è di 20-30 euro, cioè non più di 3.75 euro l’ora.

Il rapporto di Amnesty International descrive i principi della politica migratoria italiana, fissati dal Testo unico sull’immigrazione del 1998 e dalla legge Bossi-Fini del 2002. Il primo è il controllo dei flussi d’ingresso. Il numero di lavoratori migranti ammessi nel paese ogni anno è fisso e definito in un decreto governativo (il cosiddetto “decreto flussi”), che stabilisce quote per tipi diversi di lavoratori.

Il secondo principio è la subordinazione del rilascio del permesso di soggiorno all’esistenza di un “contratto di soggiorno” scritto, depositato dal datore di lavoro allo Sportello unico per l’immigrazione, col quale egli s’impegna a garantire un alloggio adeguato e a pagare le spese del viaggio di ritorno al lavoratore migrante che intende assumere. Una volta verificato che nessun lavoratore italiano o comunitario è interessato al lavoro, lo Sportello unico per l’immigrazione rilascia il “nulla osta al lavoro”, sulla base del quale i nostri Consolati rilasciano il visto d’ingresso che, in Italia, dev’essere convertito in permesso di soggiorno.

Nella pratica, il sistema non funziona. Intanto, le quote d’ingresso stabilite dal governo italiano rimangono regolarmente al di sotto la domanda reale di lavoro migrante. Nel 2011 i datori di lavoro hanno presentato circa 400.000 domande per lavoro subordinato, quasi quattro volte il numero di posti disponibili secondo la quota stabilita per quell’anno (98.080).

C’è poi, immancabile, la “burocrazia”: poiché per il rilascio del “nulla osta” possono occorrere anche nove mesi, l’idea che i datori di lavoro in Italia reclutino lavoratori migranti quando essi si trovano ancora nel paese d’origine – quando possono reclutare migranti che si trovano già in Italia, sebbene in posizione irregolare – è semplicemente irrealistica, specialmenteper i lavori poco qualificati, come quelli tipicamente svolti da lavoratori migranti, stagionali e non, in agricoltura e nel turismo. Ma, in questo caso, anche laddove il datore di lavoro fosse disponibile a concludere un “contratto di soggiorno”, la legge impedisce il rilascio di permessi di soggiorno per lavoro subordinato o stagionale a lavoratori migranti che si trovino già in Italia irregolarmente.

In sintesi, i datori di lavoro tendono a, perché non possono fare altrimenti o, soprattutto, lo trovano conveniente, impiegare migranti irregolari. Questi non hanno altra scelta se non lavorare nell’economia informale.

Ecco aperta, allora, la strada al mercato parallelo dei permessiallosfruttamento e all’invisibilità. La condizione di migrante irregolare, come noto, in Italia è un reato dal luglio 2009. Ciò significa che i migranti irregolari che vogliano denunciare abusi, compreso lo sfruttamento lavorativo, rischiano non solo di perdere il lavoro ma di essere accusati del reato di “ingresso e soggiorno illegale” (su cui oggi il Segretario generale dell’Onu prende una posizione molto netta), detenuti ed espulsi.

Si chiede “Jean-Baptiste”, un lavoratore migrante del Burkina Faso:

“Quando il datore di lavoro non paga, che cosa puoi fare per avere il denaro? Senza documenti, come puoi andare alla polizia? Senza documenti, sei espulso. Ma non hai fatto niente di male…”.

Le autorità italiane possono dare una risposta?

PS: i nomi delle persone intervistate da Amnesty International sono stati alterati per ragioni di sicurezza.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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