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Chi sono gli shabaab e perché hanno attaccato a Nairobi

Cosa si nasconde dietro al volto coperto dei miliziani che hanno preso d’assalto il Westgate mall. 

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La "bandiera di guerra di al Shabaab

Nelle ultime ore, in molti si stanno chiedendo chi sono i terroristi che sabato scorso hanno fatto irruzione nel centro commerciale Nakumatt Westgate a Nairobi, prendendo molti ostaggi e uccidendo un numero ancora imprecisato di persone, tra le quali anche diversi turisti.

Sono i miliziani appartenenti al gruppo somalo di al Shabaab, che in arabo significa “la gioventù”.

Un nome scelto non a caso, perché è proprio sui giovani, spesso adolescenti portati via alle loro famiglie, che questa organizzazione fonda il nucleo delle sue spietate milizie, che, secondo le ultime stime, sarebbero formate da circa 8mila combattenti, tra i quali anche pachistani, afgani, nordamericani e somali britannici.

Il gruppo è incluso nella lista delle organizzazioni terroristiche redatta dal dipartimento di Stato Usa e dal febbraio 2012 è entrato ufficialmente a far parte del network jihadista di al Qaeda. Tale adesione ha provocato pesanti contrasti all’interno del movimento, già in difficoltà a causa dell’arresto e dell’eliminazione di alcuni dei suoi capi.

Ad ogni modo, per raccontare la storia degli shabaab è necessario tornare all’estate 2006, quando un formazione eterogenea, l’Unione delle Corti islamiche, con l’appoggio della popolazione di Mogadiscio e col sostegno di Libia e Arabia Saudita, pone fine al dominio dei brutali signori della guerra in Somalia.

Per molti somali, la presa di potere da parte delle Corti costituisce un’evoluzione in positivo rispetto agli stupri di massa ed alle stragi immotivate dei warlord.

Nelle città amministrate dai Tribunali islamici comincia regnare un certo ordine: dopo più di dieci anni, riaprono gli aeroporti e si ripopolano i negozi di alimentari ed i mercati, mentre i prezzi dei generi di prima necessità iniziano a scendere. Tutto ciò fa passare in secondo ordine l’applicazione della sharia, con le pubbliche lapidazioni delle donne adultere e le fustigazioni di piazza.

Tanto che le Corti prendono rapidamente il controllo di buona parte del paese, spesso senza doversi neppure battere, finché, nel dicembre 2006, interviene l’esercito etiope con l’appoggio dell’aviazione statunitense, per impedire agli islamici di prendere il controllo totale della Somalia e salvare il debole governo di transizione.

Al Shabaab si sviluppa in questo periodo, come la fazione più giovane, disciplinata e radicale delle Corti islamiche. E, dopo l’uscita di scena di quest’ultime, l’organizzazione diventa più forte e influente di qualsiasi altro gruppo armato nel paese. Con una guerriglia strisciante costringe l’invasore etiope a ritirarsi nel gennaio 2009, in quello che viene ricordato come l’Iraq africano di Addis Abeba. A questo punto, gli shabaab non hanno più rivali. Si riappropriano del territorio, fino ad assumere il controllo di vaste zone della Somalia centro-meridionale.

Perché il lussuoso mall di Nairobi è diventato un bersaglio per al Shabaab?

La spiegazione è racchiusa nelle parole di Sheikh Ali Mohamoud Rage, portavoce del temibile gruppo jihadista che ha rivendicato l’assalto al Westgate, dichiarando che l’attacco è stato portato a termine “per punire il Kenya per il suo coinvolgimento nel conflitto somalo”.

Senza contare che il gravissimo attentato di Nairobi non è il primo in un paese al di fuori dei confini somali. Gli shabaab avevano già colpito il Kenya, reo di aver scatenato un’offensiva contro di loro nelle regioni meridionali della Somalia, e anche l’Uganda, i cui soldati, insieme a quelli del Burundi, costituiscono l’ossatura dell’Amisom, la missione dell’Unione africana in Somalia.

Proprio a Kampala, capitale dell’Uganda, nel giugno 2010, i kamikaze di al Shabaab misero a segno un duplice attentato in due locali pubblici dell’Ethiopian Village nel distretto Kabalagala, in cui persero la vita 74 persone che stavano assistendo ad una partita del Mondiale di calcio in Sudafrica.

Per anni, Nairobi aveva scelto di seguire la via diplomatica per arrivare ad una soluzione negoziale del conflitto nella vicina Somalia. Poi, alla fine di ottobre 2011, ha deciso di cambiare strategia ricorrendo all’uso della forza con il lancio dell’operazione Linda Nchi (in lingua swahili significa “protezione della nazione”), che prevedeva l’invio di truppe keniane in territorio somalo per creare una zona di sicurezza fino a cento chilometri dal confine.

Il Kenya ha preso tale decisione per respingere la crescente minaccia di Al Shabab, ma da allora è diventato uno dei partecipanti al conflitto e il gruppo somalo ha aggiunto il governo di Nairobi alla sua lista di nemici. Lo dimostra la reazione del portavoce ufficiale Ali Mohamoud Rage, che subito dopo l’inizio dell’operazione militare dichiarò: “Il Kenya non avrà pace fino a quando non ritirerà le sue truppe dalla Somalia”.

In effetti, già da tempo si era diffuso il timore di un possibile attacco in una zona centrale di Nairobi. Per evitare incursioni da parte di persone armate, da oltre un anno, agenti di sicurezza e metal detector erano stati posti all’entrata dei principali centri commerciali della capitale. Ma le misure di prevenzione non si sono rivelate così efficaci da fermare la mano omicida di al Shabaab.

 

Foto: Wikimedia

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