• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Mondo > Che succede in Cina?

Che succede in Cina?

Brutte notizie dalla Cina, sia sul lato politico che sul lato economico. La successione al duo Hu Jintao-Wen Jabao, che sembrava cosa fatta e tranquilla, si sta complicando e non poco. Intendiamoci: la nomina di Xi Jinping a capo dello Stato e del Partito non è in discussione così come, sembra, quella di Li Keqiang a capo del governo.

Ma il problema è il rinnovo dei membri dell’Ufficio Politico che potrebbero essere due (se il totale restasse a nove) o quattro (se esso salisse a undici come sembra che chieda la corrente dei tuanpai) e questo cambierebbe l’equilibrio fra le tre componenti principali del partito. Si fanno vari nomi, fra cui alcuni di compromesso, ma sembra di capire che l’accordo non sia tanto facile da trovare. Il gruppo di Shanghai (di ispirazione neo liberista) è alla riscossa, dopo le umiliazioni subite nei tre anni precedenti, ed ha sfruttato alla grande la destituzione di Bo Xilai. Ma, considerando che il posto più importante, va a Xi Jinping –che appartiene alla corrente dei “principi rossi”- questo potrebbe implicare un forte indebolimento dei tuanpai, cui appartiene Li Keqiang che rischia di diventare un’ “anatra zoppa”.

Nel frattempo si sono infittiti i segnali di una lotta durissima nel gruppo dirigente in vista del congresso: l’arresto della moglie di Bo Xilai rischia di travolgere altri dirigenti; c’è stata la strana morte in incidente d’auto del figlio di uno dei maggiori “principi rossi”; si dà per scontato il rinvio del congresso di due e forse di quattro mesi ed è stato annunciato con insolito anticipo la “fine del dibattito sulla politica economica” (si scrive così, ma si legge: “il dibattito prosegue a porte chiuse”).
Il tutto si mescola ad una bufera economica in arrivo.

Già in marzo era chiaro che la Cina non avrebbe raggiunto l’8% di crescita del pil annuale (da sempre ritenuta il punto di equilibrio, per far fronte al continuo arrivo nelle città delle masse di contadini) e poco dopo è stato annunciata la riduzione dell’obbiettivo annuale al 7,5%. Ma a fine maggio i dati indicavano che le cose stavano andando male e forse si sarebbe dovuti scendere ancora sotto. Il che prospetterebbe una ondata di disoccupazione paragonabile a quella di quattro anni fa, quando la recessione americana, seguita al crollo della Lehmann Brothers, bruciò 20 milioni di posti di lavoro in Cina. Ora a preoccupare è la crisi del mercato europeo e, per di più, la fiacca ripresa americana che –per dirla tutta- si sta dimostrando un vero bluff.

D’altra parte, brutti segnali di frenata vengono anche da Brasile, India e Russia. Ma per la Cina è più grave, perché si tratta di affrontare la congiuntura economica più difficile degli ultimi trenta anni contemporaneamente ad un momento delicatissimo come un congresso con mutamento del gruppo dirigente.

Per buttare acqua sul fuoco, almeno momentaneamente, la Pboc (la banca centrale cinese)  a fine maggio ha tagliato i tassi di interesse, nella speranza di rimettere in moto la machina. Ma le cose non devono essere andate nel modo sperato se, nei primi di luglio è stato annunciato un secondo taglio, senza neppure tentare la carta della riserva obbligatoria, il che fa pensare che il tempo si stia mettendo decisamente al brutto. E così la cosa è stata capita dalle borse asiatiche che hanno reagito molto male all’annuncio.

Il punto è che la cura della liquidità (unico rimedio conosciuto da queste classi dirigenti sia occidentali che orientali) è ormai un’arma spuntata. E, infatti l’economista cinese Dong Tao (analista del Credit Suisse) dice che ormai anche la Cina sta cadendo nella “trappola della liquidità” (S24 7 luglio 2010 p. 26) a suo tempo teorizzata da Hyman Minsky: gli investimenti stagnano non perché il costo del denaro sia alto, ma perché gli investitori non lo ritengono “conveniente con queste condizioni di business”. In altri termini: “che investo a fare nella produzione di beni e servizi se poi non vendo quel che offro?”

E le attuali condizioni di business dicono che i mercati di sbocco occidentali non assorbono (o assorbono sempre meno), quelli degli altri emergenti si stanno fermando a loro volta (e, peraltro, erano una fetta troppo piccola dell’export cinese) e quello interno non riesce ancora a decollare.

E, infatti, nonostante il taglio degli interessi, le maggiori banche cinesi hanno erogato in giugno 188 miliardi di yuan, cioè 60 in meno di quelli erogati nel mese precedente, quando i tassi erano più alti. Qu Hongbin (economista della banca Hsbc) la dice chiara: “nel momento in cui la domanda esterna si è indebolita e la domanda interna non è migliorata significativamente nonostante le misure adottate, la crescita probabilmente continuerà a rallentare” (F, 7 luglio 2012 p 1). Il che significa forti rischi occupazionali che farebbero salire la temperatura sociale oltre i limiti di sicurezza.

Ma allora perché i cinesi non puntano ad una rapida crescita del mercato interno? Più facile a dirsi che a farsi: un aumento veloce dei salari potrebbe determinare una ondata inflattiva difficile da governare, ma soprattutto, ci sono una serie di esigenze contrastanti: evitare di gonfiare ulteriormente la bolla immobiliare di cui si aspetta l’esplosione da un momento all’altro, reggere l’indebitamento degli enti locali, correggere le forti diseconomie del sistema industriale… Troppe cose tutte insieme.

Ma se anche l’ultimo pistone funzionante dell’economia mondiale, la Cina, smette di pompare, vuol dire che siamo ad un passo dalla caduta della domanda aggregata mondiale e che sta per spalancarsi il tunnel di una depressione mondiale senza precedenti.


Credit Photo: kleinezeitung.at

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di Sandro kensan (---.---.---.95) 13 luglio 2012 16:19
    Sandro kensan

    D’altra parte la produzione di petrolio è costante da molti anni e quindi la produzione mondiale non può aumentare per mancanza di petrolio aggiuntivo. In più bisogna aggiungere che il petrolio facile è in netta diminuzione mentre è in salita il petrolio difficile.

    Sostituire il petrolio facile con quello difficile è un pessimo affare che porta solo recessione mondiale perché il petrolio difficile ovvero quello pesante, quello deep water, quello bituminoso, quello fracking, vale solo una frazione del petrolio facile.

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares