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Canna di fucile


Clara aveva due occhi scuri da cerbiatta e un sedere da favola: arrotato, sodo e piccolo, stava nel palmo di una mano. Era piccola ma ben proporzionata. La sua pelle sembrava ceramica; aveva gli zigomi alti, le sopracciglia marcate, le labbra sporgenti, il mento appuntito e un nasino sottile. Aveva lo sguardo innocente, ma nelle sue fossette si nascondeva una pantera. Ogni volta che, in ufficio, mi presentavo al suo cospetto, non ero per nulla intimorito. Anzi, ero sempre più sicuro di me. Sciolto e tranquillo. E chissà come mai, quando non la vedevo per un po’ di tempo e provavo, a casa, ad immaginarmela, la ricordavo sempre meno carina di quel che effettivamente fosse dal vero. Adesso tutti i colleghi la rimpiangono, ma intanto l’hanno già rimpiazzata. Non bella come lei, come Clara intendiamoci, ma il suo posto è già stato preso. Tanti saluti Clara. Già da quando mi mettevo in fila, e lei mi guardava sorridendo, mi sentivo meglio. Bastava una sua sbirciata felice e languida a quadrare il cerchio. Era come una nuova nascita, la giornata s’illuminava, fuori dalle mie finestre interiori la luce cresceva. Speravo sempre che si alzasse dalla sua scrivania, soltanto per vedere come si era vestita. Avevo la mania del suo abbigliamento provocante. Era piccolina, si, ma talmente ben fatta che qualsiasi straccio indossasse le donava una aura di luminosità. E lei non metteva robaccia da mercato, no. Camminava come una modella; faceva dondolare i glutei a destra e a sinistra. Mi faceva impazzire quando passava per i corridoi, scodinzolando, con i jeans aderenti e le magliette attillate che tiravano sulle piccole spalle dritte e i suoi meravigliosi texani. Aveva gusto per l’abbigliamento; ancor di più per le calzature. Poi, quando le ero davanti impietrito, ripeteva quel sorriso aperto e sincero che già prima mi aveva lanciato, mentre aspettavo. Scostava la frangetta scura, ciocche color caramello che le adombravano la fronte e sbattevano sui suoi occhioni nocciola leggermente truccati, schiudeva le ciglia tirate al nero e cominciava a darsi da fare. Ammetto di averla fatta alzare dalla seggiola più di una volta, con qualsiasi scusa, per poterle guardare il posteriore. Il seno glielo vedevo anche quando ce l’avevo di fronte. Non erano certamente il suo forte, due piccole dune posate sul torace. Era lei nel complesso ad essere affascinante. Clara aveva movenze da danzatrice. Sembrava sempre volteggiare in punta di piedi, nemmeno pestasse delle uova. Veleggiava da un capo all’altro della filiale come fosse senza peso, una piuma cava d’uccello. L’avevo vista anche un paio di volte mentre andava al lavoro, sulla sua ipsilon color canna di fucile; che spreco distruggere un’auto così bella, facendola ruzzolare giù dalla scarpata. Ma è stato necessario. Quando l’avevo incrociata, il suo viso sfiorava il cruscotto e spuntava nel mezzo del sedile, vedendosi appena; era come se la vettura fosse manovrata da un fantasma, talmente esile e minuta era la figura che la comandava. Clara era veramente una persona volubile, leggera. Anche adesso è senza peso, ne sono sicuro. Però è fredda e ha lo sguardo perso nel vuoto. Mi piaceva, si, Clara. Però c’era un problema: il suo moroso. Quando la osservo, scomposta e sezionata nel mio freezer, non mi sorride più. Se ne sta là, algida e altera, senza degnarmi di uno sguardo. E dire che ho fatto tutto per lei, per poterla adorare come merita. Per averla, come bramavo, tutta per me. Adesso non è così espansiva e nemmeno affettuosa o cordiale come prima. Peccato. Il suo ragazzo, Gianmarco, mi era simpatico. Lo conoscevo già prima d’incontrare Clara e sono rimasto di sale quando ho saputo del loro legame. Era un delitto che fossero così uniti. Era un dovere dividerli, per il loro bene. Comunque lui non ha fatto tante storie. E’ volato dal burrone dentro la macchina senza nemmeno protestare. Certo, con una pistola puntata alla tempia è difficile ribellarsi. Peccato, Gianmarco era veramente un ragazzo d’oro; un po’ pieno di sé, ma di compagnia. Era anche, e questa è una seconda coincidenza strana, figlio di una mi ex professoressa. Ad esser sincero quella insegnante non mi piaceva affatto; non che la odiassi, no, come altri suoi colleghi, ma mi dava l’idea di una persona non preparata, sporca e insulsa. E poi aveva sempre i capelli unti e spettinati. Io odio chi gira con i capelli impiastricciati e non cura il proprio vestiario. Bèh lei, la madre di Gianmarco, era così: sporca e trasandata. Anche al funerale, quando sono andato a farle le condoglianze, era talmente messa male che mi sembrava di essere tornato ancora ai tempi delle superiori. Piangeva. Si tirava gli occhiali, gli stessi che aveva in classe, sul viso grasso e rigato dalle lacrime; aveva una giacca fuori moda, tutta stropicciata e una orribile sottana di fustagno. La chioma corvina, oleosa, mi aveva fatto stizzire. Ad ogni modo mi sforzai di farle le condoglianze rispettosamente mentre il marito, un signore quasi anziano con un pizzetto grigio, la trascinava al cimitero. Fece fatica a riconoscermi, dovetti ripeterle il mio nome. Al funerale di Clara non andai: non trovarono il suo corpo e la diedero per dispersa, probabilmente pensarono che fosse bruciata nell’automobile volata giù per la scarpata. I suoi genitori non li conoscevo, cosa sarei andato a fare? Avrei destato solo inutili sospetti. Qualche parente o familiare avrebbe potuto pensare che fossi un amichetto, un amante segreto, mettendo in discussione la sua pura fedeltà, gettandola in cattiva luce. Clara era invece pura, e si mantiene ancora così, soltanto per me. Certo non è più tanto espansiva. Rimane sulle sue e anche i suoi stivali, a forza di averli qui davanti, non mi sembrano così eccezionali come quando li calzava lei. Sembra che le manchi qualcosa, quella vivacità vitale che le leggevo negli occhi è sparita. E pensare che li avevo invitati io a fare una gita in montagna. Non sospettavo che andasse a finire in questa maniera. Loro erano stati gentili con me, prima. Mi avevano chiamato a fare qualche immersione assieme, e c’eravamo fatti amici sul serio. Ma lei, Clara, era sempre gentile e carina con me. C’era di più, io lo sapevo. Allora decisi di portarli in montagna; ma giuro che non era mia intenzione far volare giù dal burrone la loro ipsilon con dentro Gianmanrco. Fui costretto dagli eventi. Comunque è acqua passata. Nemmeno la ribellione di Clara era prevista; non la piantava di frignare, sembrava aver perso quella briosa allegria delle giornate lavorative. Ma anche quella oramai è una cosa superata. Mi spiace solo che non abbia potuto salvarla, ecco, che abbia dovuto zittirla. Non ho avuto scelta, altrimenti mi sarebbe scappata ancora. Invece adesso lei è lì. La vedo, la tocco, la bacio, l’ammiro quando voglio, anche se lei non ricambia. Se fossi stato più convincente forse mi avrebbe ascoltato, invece dovetti proprio finirla. Peccato. Comunque sia i suoi colleghi l’hanno compianta, ma tanto. Davvero. Sono rimasti sconvolti e commossi per almeno una settimana. Adesso però si sono riavuti. E hanno già piazzato una sostituta. Non è bella come lei, ci mancherebbe. Ha dei capelli ispidi, di un brutto colore paglia e fieno, i lineamenti grezzi da scaricatore e si muove in maniera goffa. Il suo sedere deborda ai lati dei pantaloni. No, decisamente non mi è simpatica. Non le ho nemmeno mai chiesto come si chiama. Però Lucilla, la collega che le siede di fianco, non è male, ripensandoci. Anche lei mi saluta sempre col sorriso sulle labbra. Mi chiama per nome e quando vado da lei sembra un cagnolino che scodinzola per la felicità. Si vede che ha un debole per me. E’ inutile, io ho un sesto senso. Riesco a vedere un piccolo bagliore accendersi negli occhi delle ragazze che fanno al caso mio. E quando si accende quella spia, quelle luci riflesse nelle loro pupille, io comincio. Certo è formosa, morbida, ma ha due seni imponenti che devono essere niente male. Porta magliette attillate, minigonne e stivali anche lei. E ha lo stesso passo felpato di Clara. Andavano sempre al bar assieme, prima. E’ anche alta, o meglio bassa, come Clara. Ha una bella chioma lunga e riccioluta, una testa piena zeppa di capelli curati. Un volto tondo come le sue forme e sprizza dinamismo da ogni poro, anche dalla cicatrice che le solca la fronte. Trovo graziose le sue sopracciglia, quasi inesistenti, che coprono due occhietti verdi e acquosi. Le sue guance piene, bianche e rosse, la fanno sembrare una creatura alpina. In realtà viene dalla città dei sassi. Mi piacerebbe andarci, qualche volta. Chissà com’è quel paese fatto da case scavate nella roccia. Come rocciose sono le poppe che Lucilla porta con orgoglio. Si. Decisamente, mi piace Lucilla. Anche il suo ragazzo mi è simpatico, purtroppo. Ama la pesca sportiva, proprio come me. Peccato. Ho un congelatore molto grande, male che vada.

Racconto di Matteo Ongari


Rubrica
Il racconto del venerdì

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