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Campo Parwan, gli afghani dimenticati

L’abbandono degli ultimi fra gli afghani ha le piaghe di una bimba di quattro anni, una scabbia lacerante e non sappiamo oltre per mancanza di competenze dermatologiche. Né lo sa il padre e neppure Imam, un quarantaduenne dignitoso responsabile del campo profughi di Parwan, impiantato ai margini di Kabul da dodici anni.

Ci vivono in circa cinquecento, appartenenti a cinquantacinque famiglie con un mare di bambini esposti a ogni genere di malattia. Un focolaio di contagio perenne perché in quello spazio di capanne di fango e sterco di vacca, ristretto sempre più dall’assedio di nuove costruzioni, c’è solo una bocca d’acqua che non disseta nessuno dei presenti perché non è potabile.

Il prezioso liquido, primo passo per l’igiene come recita un cartello dell’Unicef affisso su una baracca, viene elemosinato nel quartiere circostante, di porta in porta in casupole povere, ma almeno coi mattoni che sopperiscono all’assenza di fontane nelle strade della capitale. I profughi provengono da nord, Parwan appunto, e nord-est le province di Jalalabad, Kapisa e Laghman.

Sono qui perché hanno perso tutto: abitazione, terra, animali per colpa delle guerre infinite che straziano il Paese. L’ultima è la nostra, l’Enduring Freedom bushiana fatta sua dall’intero Parlamento italiano che dal 2004 vota compatto per la “Missione di pace”. Anche di recente i bombardamenti Isaf hanno provocato lutti a Laghman e raso al suolo il tetto di chi ora è ridotto allo stremo in quest’angolo alle porte Kabul.
 

Zero infrastrutture

I cooperanti veri, che vivono a contatto con casi di discriminazione assoluta, affermano che situazioni del genere sono rare in qualsiasi parte del mondo. Dell’acqua sapete, fogne neanche a parlarne e figurarsi se è presente energia elettrica. Questa comunità è dimenticata da tutti, dagli stessi progetti della Comunità Internazionale che qui s’è fatta viva solo con una Ong tedesca che ha montato due tende per una scuola frequentata in due turni, 8-12 e 12-16, da cento maschietti e sessanta bambine dai sei ai quindici anni.

A seguirli due giovani insegnanti afghani di buona volontà: Faisallah e Nur Apha. Dice Imam “Così almeno i nostri figli potranno imparare a leggere e scrivere. Nella scuola statale non li volevano perché sono malvestiti e puzzano. Il governo non ci fa neppure l’elemosina. L’anno passato ogni famiglia ha ricevuto un sacco di grano e cinque litri d’olio dall’Onu poi nulla più.

Noi uomini cerchiamo lavoro ma è difficile avere continuità. Possiamo fare per qualche giorno i facchini però quel poco che guadagnamo non basta per vivere. Ho parlato coi capi famiglia per aiutare quelle donne che non hanno nessuno accanto, raccogliamo ciò che possiamo per sostenerle”.

Prigioniere della povertà

Alcune di queste donne, non più giovani, danno segni di squilibrio mentale, costrette come sono dai costumi a restare lì senza poter uscire dallo spazio maledetto, libertà concessa al genere maschile. Negli ultimi tempi un sostegno arriva da uno psicologo afghano che settimanalmente va a visitarle. Ma si tratta di gesti d’umanità a carattere personale.

Unica nota positiva è la creazione di una sorta d’infermeria che sta sorgendo in un padiglione, messo a disposizione sempre dell’Ong tedesca, ai margini del campo. Nelle mattine del lunedì e giovedì dovrebbero arrivare due infermiere per i malanni di routine che fra i piccini non sono pochi. Qualcuno in quest’inverno, che è stato particolarmente rigido, s’è ammalato di polmonite mentre “l’anno scorso - chiosa Imam - qualche bambino era morto di freddo”.

Un padre mostra il figliolo di tre anni che non cammina più, a suo dire, proprio per le temperature sottozero. Nei casi d’urgenza non possono ricorrere neppure al famoso ospedale di Emergency che sorge nei pressi della zona delle ambasciate, la cittadella blindata comunque oggetto di attentati, l’ultimo tre giorni fa. La struttura di Emergency, frequentata da tanti afghani provenienti da ogni provincia interviene solo nei casi di vittime di guerra, non delle vittime della povertà che ormai superano anche la cifra diventata ufficiale dell’80% della popolazione. 

 

 

“Se ci cacciate moriremo qui”

Eppure in quest’Afghanistan dell’abbandono e della disumanizzazione c'è chi s’arricchisce. Sono i businessmen che ruotano attorno al governo Karza e ai Signori della guerra, soggetti divenuti un sinonimo, vista la presenza di alcuni di loro nell’Esecutivo carezzato da Obama. S’arricchisce anche chi calamita i tanti fondi che la cooperazione mondiale elargisce senza controllarne la destinazione in troppi casi a tutto svantaggio della popolazione.

Un ricco signorotto di questi, tal Haji Babrak, è il committente delle costruzioni che sorgono attorno al campo e che vorrebbero allargarsi anche in quell’area. Il progetto prevede la creazione di sale per cerimonie di matrimonio, affittate a coloro che possono permettersi di spendere per ogni portata almeno mille afghani, pari all’incirca a dodici euro, cifra che nei casi frequenti di povertà mantiene un’intera famiglia per un mese. Imam dice che il signorotto ha spedito più volte i suoi uomini a minacciarlo.

Lui si è opposto fermamente perché quel terreno non è privato bensì del governo che li abbandona; si ma finora non li ha mai cacciati “E poi perché non sapremmo proprio dove andare. Ho risposto così: dite al vostro padrone che ci faremo ammazzare. Non abbiamo nient’altro che le nostre misere vite, ora non abbiamo paura di nulla. Se ci cacciate moriremo qui”.

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