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Calo del petrolio: la manna che non colsi

Il Fondo Monetario Internazionale ha pubblicato ieri l’aggiornamento del World Economic Outlook. Malgrado la spinta teoricamente fornita dal calo del greggio, la crescita viene rivista lievemente al ribasso rispetto alla previsione dello scorso ottobre, motivando la revisione con effetti negativi che compenserebbero lo stimolo fornito dal crollo dei prezzi del petrolio. Al netto della circolarità e dell’inversione di cause ed effetti, e facendo una robusta tara per previsioni che negli ultimi anni hanno evidenziato margini di errore ampi e per eccesso di ottimismo, balza agli occhi la situazione italiana.

La nostra crescita 2015 è rivista in ribasso dal FMI, allineandosi a quella di altre previsioni, allo 0,4%, con un taglio secco di mezzo punto percentuale che si ripete anche nel 2016, con una crescita attesa dello 0,8%. Solo una manciata di giorni addietro la Banca d’Italia aveva stimato un +1,2% per il Pil 2016 della nostra economia. Premesso (per l’ennesima volta) che i modelli esistono per produrre errori, colpisce il fatto che un paese trasformatore ed esportatore come il nostro non venga accreditato di maggiore crescita a seguito di importanti shock positivi come il greggio ed il cambio, ovviamente in relazione al commercio extra-Ue.

Non è tutto così meccanicistico e “tradizionale”, però: come osserva la Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo, solo il 10% del nostro export è fatturato in dollari, e comunque i prodotti provenienti dall’area euro devono competere, in area dollaro, con quelli di paesi che hanno visto a loro volta un forte deprezzamento del cambio, dal Giappone agli emergenti. Su tutto, il fenomeno di rallentamento dell’espansione del commercio globale, che per la prima volta cresce in volume meno della crescita del Pil reale mondiale, a causa di fenomeni che andranno indagati nella loro dimensione ciclica e, soprattutto, strutturale.

Si deve quindi solo sperare che queste stime siano errate, questa volta per eccesso di pessimismo. Se così non fosse, sarebbe la prova che l’Italia ha problemi “esistenziali” di crescita. In tal caso, aspettiamoci altre ovvie ed ancor più incisive misure di “attrazione” di capitale estero, puntellate da ulteriori spallate al costo del lavoro, in prevalenza dal versante delle retribuzioni nominali, e da deregolamentazioni spinte. Non è un caso che, nei giorni scorsi, Federmeccanica abbia criticato il governo per non aver esteso da subito il Jobs Act a tutta la popolazione di lavoratori dipendenti. E resta la considerazione di fondo: andare a vendere agli italiani che le loro retribuzioni non sono destinate ad una profonda decurtazione vuol dire tentare di vendere il Colosseo ad un turista. Poi, si può anche espropriare il risparmio per aumentare il reddito disponibile, magari prima di ogni elezione, ma gli effetti di lungo periodo non cambiano. E neppure quelli di breve.

A proposito di attrazione degli investimenti, al consiglio dei ministri di ieri non era all’ordine del giorno il cosiddetto Investment compact che dovrebbe prevedere, tra le altre cose, una “facilitazione” per i grandi investitori esteri, quelli da almeno 500 milioni di euro di investimenti pluriennali con flussi annuali da almeno 100 milioni, per i quali è prevista la certezza e la non retroattività del quadro normativo, in particolare di quello fiscale, attraverso ruling personalizzati. Bizzarro, però: questa dovrebbe essere la regola anche per i poveri sudditi indigeni.

Il petrolio a 60 dollari al barile prolungato nel tempo “potrebbe essere una buona notizia” e portare ad uno “0,5% di crescita in più. Con l’aria che tira è molto importante”. Lo ha detto il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan al congresso Legacoop (Ansa, 18 dicembre 2014)

Foto: Daniele Testa/Flickr

Questo articolo è stato pubblicato qui

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