CIE: nel limbo della legalità
L’eccezione conferma la regola? No, l’eccezione sfugge alla regola, specialmente trattandosi di “eccezione al diritto”. Istituiti dal Testo Unico sull’Immigrazione (legge Turco-Napolitano) nel 1998, i CIE (Centri di Identificazione ed esplusione) costituiscono, in Italia, la prima struttura detentiva, seppure “temporanea”, di soggetti che non abbiano violato alcuna norma penale.
Ma c’è di più: trattandosi di provvedimenti correttivi di uno stato d’emergenza, i CIE risultano privi di un’organizzazione strutturale. La gestione, infatti, varia nelle tredici carceri attualmente funzionanti (Bari, Bologna, Brindisi, Caltanissetta, Crotone, Lamezia Terme, Gorizia, Milano, Modena, Roma, Torino, 2 a Trapani), pur presentando una costante: l’assenza di garanzie per quelli che vengono impropriamente definiti “gli ospiti della struttura”.
Italiani, stranieri, Nord, Sud, Destra, Sinistra, per una volta sono tutti d’accordo: i CIE non li vuole nessuno. Certo, come sempre, ciascuno ha le sue motivazioni, condivisibili o meno. Le elaborate soluzioni leghiste suggeriscono imperterrite l’immediato rimpatrio degli immigrati “senza se e senza ma”. D’altronde importa che siano uomini, donne e bambini sfuggiti al degrado ambientale, alla disgregazione sociale, a politiche instabili e repressive? Chissà.
Certo è che vanno chiusi. È un lusso che lo Stato non può più permettersi. Lo stesso governo, cosciente dell’insostenibilità di tali investimenti, diminuisce gradualmente i fondi alle strutture, determinando il collasso dei servizi, primari e non. Non era forse prevedibile il malfunzionamento di strutture adatte a una permanenza limitata (si parlerebbe di “trattenimento” e non di “detenzione”),ma legate a procedure burocratiche tutt’altro che brevi?
C’è poco da stupirsi se la detenzione straordinaria di diciotto mesi debba, ancora una volta, divenire una costante. Parallelamente a tali considerazioni economico-organizzative, tristemente riduttive, vi sono poi più approfonditi rapporti di Medici Senza Frontiere e Amnesty International (confermati dalla relazione 2003 della Corte dei Conti) che denunciano l’inadeguatezza delle strutture, la trascuratezza delle condizioni fisiche e psichiche dei suddetti “ospiti”, l’assenza di assistenza medica. Ciò che preme sottolineare è che si tratta di luoghi istituiti per far fronte a una situazione di emergenza che, per sopperire a una violazione legislativa, sono divenuti teatro della violazione di diritti fondamentali di esseri umani, seppure clandestini. Primo fra tutti il diritto alla salute.
Tale regressione - legislativa, politica, sociale - riconosciuta, eppure ignorata, è l’ennesima aggravante che fa di questa Italia un Paese poco reattivo e ancora impreparato a efficaci piani di integrazione sociale. È necessario che l’Italia, a questo proposito, rilegga i principi fondanti della sua Costituzione e provveda quanto prima non soltanto alla chiusura dei CIE, ma soprattutto a una gestione responsabile del del fenomeno.
Nadia Alessandra Benahmidou per "Segnali di fumo - il magazine sui Diritti Umani"
Mappa Cie in Italia: Wikipedia
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