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Burkini | Il velo sui valori in gioco

Orioli: Se non sottintendesse questioni ben più pregnanti e complesse, che sembrano però passare in secondo piano, l’odierno e pompato dibattito sul burkini sì-burkini no starebbe benissimo nell’elenco dei classici tormentoni estivi. Dai consigli antiafa, alle diete lampo, ai bollini sulle autostrade.

Carcano: È proprio il caso di dirlo, una classica lettura da spiaggia! Ho personalmente sentito persone intelligenti definire il dibattito sul burkini “un’arma di distrazione di massa”. Purtroppo non è così: è anzi il caso che sta portando alla luce molti temi che si era cercato di nascondere sotto il tappeto. Da questo punto di vista, è benvenuto.

O: A guardarlo così, il burkini a me personalmente fa lo stesso identico effetto dello scomodo, incongruo e fronzoluto bikini che vedo imporre alle bambine dai due anni in poi sulle nostre spiagge. Una sorta di maliziosa e ipocrita pudicizia che rivela una paradossale impudicizia di fondo e che guarda caso colpisce, quale che sia la latitudine, il cromosoma XX in quanto tale.

C: Un po’ come le pecette sui cartelloni dei film porno, negli anni ’70. C’è anche questo elemento, nel dibattito in corso. A me è particolarmente piaciuta la provocatoria proposta di Caroline Fourest di rispondere praticando il nudismo di massa. Uomini e donne insieme, beninteso. Un altro aspetto che non viene evidenziato è il retroterra del burkini: un marchio commerciale proposto ormai non solo alle musulmane, ma a tutte le donne che vogliono “sentirsi alla moda”. Veicolando in tal modo un vittorianesimo di ritorno di cui non si sentiva la mancanza.

O: Retroterra recentissimo, infatti, così come modernissimi i materiali utilizzati. Lycra e integralismo modaiolo. Ed è proprio questa sorta di reflusso, una gigantesca ernia iatale reazionaria, che meriterebbe di essere analizzata più a fondo, non limitandosi alla facile comparazione delle foto delle spiagge di ieri e di oggi di molti paesi, compreso il nostro. In ogni caso non occulta i lineamenti di chi li indossa, a differenza del burka vero e proprio. Che “mostrare il volto sia dovere sociale” infatti, per usare le parole della Merkel, mi sembra onestamente scontato. Come non entrare con il passamontagna alle poste o con il casco in farmacia.

C: Ma il casco non è un simbolo religioso. Il fattore ‘R’ consente alle religioni e ai suoi fedeli privilegi sconosciuti ad altri. In Italia le suore e le musulmane possono velarsi il capo sulla carta d’identità, ma è un privilegio riservato a chi lo giustifica con la fede. Sono i frutti avvelenati dell’accomodazionismo, nato per proteggere le minoranze ma che è finito per proteggere cristianesimo e islam.

O: Beh dai, in qualche paese europeo anche i pastafariani e i loro scolapasta. Che, con irridente goliardia ben evidenziano il raccolto di quei frutti avvelenati ai quali ti riferivi. In ogni caso, alle Olimpiadi il burkini continua a sembrarmi del tutto fuori luogo. E anche in netta contrapposizione con la miriade di norme che regolano il ferreo dress code di ogni disciplina e di tutta la competizione in generale. Puoi gareggiare in mutande ma non puoi salire sul podio se non hai i pantaloni lunghi, per dirne una. Alcuni costumi sono stati oggetto di polemiche perché pericolosi o al contrario troppo facilitanti ma, se è in gioco l’eccezione religiosa, poco importa che si facciano competere atlete con palandrane improbabili. E che, mi sembra evidente, oltre ogni possibile altro aspetto e considerazione, penalizzano e non di poco la performance sportiva. Mettete un burkini a Simon Biles e ne riparliamo.

C: Vale quanto sopra. È probabile che le atlete egiziani fossero comunque poco performanti, ma in tal modo si sdoganano valori che con lo sport non hanno niente a che fare. Il problema è del resto istituzionale: alle Olimpiadi è addirittura all’opera un comitato interfedi, ovviamente inventato a Torino.

O: Sarà che sono refrattaria alla logica del meno peggio, ma la contro argomentazione semplicisticamente feliciotta dell’“Almeno adesso possono… che bello!” ha il suono di un insulto. Quote rosa (di pelle scoperta).

C: La presidente dei giovani musulmani ha infatti risposto in questo modo, denunciando la negazione di un diritto. Come se vietare la poligamia (altra rivendicazione di questi giorni) significasse negare a una donna maggiori possibilità di trovare un marito. Remona Aly, sul Guardian, ha addirittura invitato a indossare il burkini per “celebrare una liberazione”. Curioso che le donne musulmane non abbiano invece mai molto da dire sulla sottomissione di genere vigente nell’islam. Del resto, islam significa “sottomissione”: in qualche modo sono coerenti.

O: L’immagine che a non pochi maître à penser della nostra cosiddetta sinistra ha messo tanta allegria, “tanti colori e tante culture” (tra il folklore e il pittoresco, insomma) delle giocatrici di beach volley, due in bikini due modello spedizione polare, a me continua a sembrare una violazione quantomeno termica dei diritti umani.

C: È uno dei due corni del delirio comunitarista. È la posizione di chi vorrebbe che gli africani girino per sempre seminudi, perché così anche i suoi figli potranno in futuro mostrare agli amici foto esotiche. Il ghetto valorizzato come attrazione turistica. Come il caso-Capalbio, fa tutto molto gauche-caviar.

O: Non che a destra vada meglio; un altro po’ e le vorrebbero tutte nude per principio, se islamiche. Perché non si impongono simboli religiosi. Che non siano crocifissi o presepi, ovviamente.

C: La destra, per giustificare i privilegi che concede alla propria religione, deve necessariamente applicare due pesi e due misure. In questa contrapposizione viene sempre meno preso sul serio l’universalismo: sia nel senso di uguaglianza di tutti davanti alla legge, sia nel senso di diritti condivisi che dovrebbero costituire il minimo comun denominatore del vivere insieme.

O: Eppure il cortocircuito c’è o quantomeno è pericolosamente vicino e latente. Illiberale vietare il burkini, a mio avviso, così come è illiberale per contro vietare il topless, checché ne pensino le donne di Comunione e Liberazione, favorevoli al primo ma non al secondo (strano). E ancor più nel complesso è illiberale e condannabile il restringere, sulla base poi dell’ordine pubblico, concetto pericolosissimamente elastico e strumentalizzabile, l’ambito dell’autodeterminazione dell’individuo sul proprio corpo, in generale. L’ambito dell’abito, nello specifico.

C: Un’altra delle favole che gira è che le ordinanze francesi siano basate sul principio di laicità, anziché su quello di sicurezza come invece è in realtà. Al contrario, la laicità è basata su altri principi: l’autodeterminazione, appunto. Ma anche l’uguaglianza. Le religioni — pressoché tutte, anche se con modalità diverse — discriminano le donne. È un problema che le istituzioni perseverano cocciutamente a non voler vedere: vogliono sembrare laiche e, nello stesso tempo, favorire le religioni. Una quadratura del cerchio di cui la vicenda-burkini sta palesando l’insensatezza.

O: Esattamente il punto cruciale di tutta la questione. Illiberale vietare, ma quanta dose di autodeterminazione e libertà c’è, al contrario, nello scegliere il velo, il burka, il burkini? C’è tout court libertà di scegliere? Quanto è labile e tagliente il confine tra il volere e l’essere costretta a volere? Non parlo dei paesi islamici, parlo delle spiagge vip dal divieto facile del nostro Occidente. Quanti e quali diritti ha una donna musulmana, oltre a quello di essere, per l’appunto, musulmana?

C: Il New York Times ha accusato le autorità francesi di paternalismo, perché vorrebbero dire alle donne come si dovrebbero o non dovrebbero vestire. Ma non ha speso una parola per denunciare i tanti padri che battono le loro figlie perché si rifiutano di indossare il velo. La libertà, per essere tale, deve essere liberamente esprimibile: se sono d’accordo sul fatto che, andando in spiaggia, le donne musulmane potrebbero avere qualche chance in più di entrare in contatto con idee diverse, resta il fatto che ciò è precluso (talvolta duramente) all’interno della famiglia. Nelle comunità musulmano si passa per radicali quando ci si toglie il velo, non quando (nel caso degli uomini) ci si fa crescere la barba e si comincia a chattare con qualche jihadista.

O: Senza voler entrare nel difficile dibattito su identità e fede, quanto uno stato che si dice laico può o deve incidere? Quanto l’integrazione tanto nominata, sempre che sia necessaria e necessitata, si costruisce su divieti che giocoforza irrigidiscono tutte le posizioni in gioco, o al contrario su permissività di facciata, su diritti speciali e contingentati, che finiscono per quando non creare quantomeno spesso proteggere ghetti etnico-religiosi sempre più serrati? L’immagine dei poliziotti francesi che obbligano una donna a spogliarsi (levarsi strati di tessuto, ma l’effetto resta quello) è integrazione, imposizione di civiltà o sopraffazione?

C: Non è integrazione passare dal velo al topless, ma non lo è neanche lasciare che alla porta accanto si violino diritti umani — basta che tengano il volume abbassato. Se si “crede” realmente che i valori proclamati dalle Costituzioni europee siano da tradurre in pratica senza soluzione di continuità. Se si vuole realmente formare individui consapevoli, si deve allora dire senza troppi giri di parole che — per esempio — i veli sono simboli di sottomissione della donna, che le religioni trattano diversamente donne e uomini. A cominciare dalle scuole per proseguire sui mezzi di informazione. Capita invece che ogni critica all’islam sia tacciata (anche autorevolmente) di “islamofobia”. Non si dà spazio alle donne musulmane che si tolgono il velo, o che addirittura abbandonano la fede, né si parla dei rischi a cui vanno incontro. Però siamo ormai a un bivio. Negli anni ’70 la maggioranza delle musulmane andava a capo scoperto, mentre gay e lesbiche dovevano nascondere il loro orientamento sessuale. Oggi c’è il matrimonio omosessuale (anche se non da noi) e non si sono mai viste così tante donne velate. È un confronto a puro titolo di esempio, ma non possiamo far finta che non vi siano pezzi di società che prendono direzioni opposte e persino antagoniste. Soprattutto, non possono non tenerne conto i musulmani. Pena la legalizzazione dei ghetti e la ghettizzazione delle leggi. E non è solo un gioco di parole.

Raffaele Carcano e Adele Orioli

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di Fabio Della Pergola (---.---.---.62) 30 agosto 2016 20:20

    Le istituzioni, in Francia non in Italia, vogliono sembrare laiche non perché antireligiose, ma perché equidistanti dalle diverse culture religiose. In quanto tali, cioè laiche, non possono violare i loro stessi princìpi fondamentali, vale a dire l’autodeterminazione personale. Al più possono vietare, all’interno degli spazi propri dell’amministrazione pubblica, la manifestazione di simboli religiosi (in Francia; in italia si continuano a vedere crocefissi ovunque). Sia il Consiglio di Stato che l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani hanno stigmatizzato le ordinanze dei sindaci francesi per questo motivo.

    Altra cosa è il concetto di "uguaglianza" secondo il quale si vorrebbe vietare il velo come simbolo della discriminazione e della sottomissione delle donne. Ma vietare un simbolo non significa risolvere il problema. Significa solo farlo sparire dalla vista. Come tale è un gesto ipocrita che non ’libera’ affatto le donne musulmane (ma anche le ebree ultraortodosse, le Amish e chissà quante altre), ma solo la visibilità della loro sottomissione. Per sconfiggere davvero l’oppressione delle donne è necessaria una battaglia culturale. E le donne che lo vorranno potranno, in quel contesto non facile ma necessario, affrontare il problema e, se lo vorranno, liberarsi dei veli. In sintesi, come è stato detto: "La parità di genere non si ottiene regolamentando dall’alto ciò che le donne indossano".

    Fa invece impressione che tante teste pensanti di sinistra - dalla femminista Zanardo, al filosofo Flores d’Arcais, al teologo Vito Mancuso, al giornalista Gramellini - ritengono corretta la strada dei divieti. Legittimo pensare che tra l’obbligo islamico e il divieto occidentale la questione si presenti come speculare: l’abbigliamento "corretto" (quindi obbligatorio) va imposto per legge. Si direbbe un residuo della mentalità totalitaria. Ma la democrazia dovrebbe essere un’altra cosa.
     

  • Di Piero Errera (---.---.---.40) 31 agosto 2016 07:51

    Ben detto, Fabio Della Pergola!

  • Di Sandrine (---.---.---.150) 31 agosto 2016 16:39

    La prima cosa che mi ha ricordato questo divieto di un particolare modello di costume da bagno è stata la polizia morale che negli anni ’70 girava per le spiagge italiane a multare le donne in topless.
    Tutto il resto è distrazione di massa (dove sono finiti tutti i problemi sindacali francesi?)

  • Di Marina Serafini (---.---.---.98) 1 settembre 2016 01:05

    È così, ne sono convinta anch’io: senza una battaglia culturale non è pensabile che avvengano cambiamenti importanti. Mi vengono in mente le parole di Nawal El Saadawi, forse la prima scrittrice egiziana impegnata nel campo, che identifica l’esposizione fisica femminile della cultura occidentale (oggi la nudità è esibita, purtroppo, con indotta e forzata ostentazione più che con tranquilla naturalezza) con la copertura velata delle donne nella cultura islamica. Pur denunciando il disprezzo espresso verso le donne dalle religioni monoteistiche, finisce per affermare che il problema è politico: non si tratta dei testi sacri, ma di quanto essi siano strumentalizzati in senso politico. Il fondamentalismo religioso - di qualsiasi parrocchia- "mette il velo alla mente della gente", ma nudità e velo vanno di pari passo: "le donne o portano il velo per religione, o sono nude per consumismo". Quello che definisce come paradosso islamico-occidentale rimanda allo stesso disprezzo (o non rispetto) del genere femminile: le donne identificate solo come oggetti sessuali. Difficile non pensare a "lo stupro" di Magritte: un quadro in cui un corpo femminile sembra un volto, e viene contornato da capelli. Si tratta in sostanza solo di un corpo femminile. Non c’è altro. Ed io concordo nel leggere in una visione così limitata la violenza irrispettosa e orribile dello stupro.

  • Di Marina Serafini (---.---.---.98) 1 settembre 2016 01:08
    Marina Serafini

    È così, ne sono convinta anch’io: senza una battaglia culturale non è pensabile che avvengano cambiamenti importanti. Mi vengono in mente le parole di Nawal El Saadawi, forse la prima scrittrice egiziana impegnata nel campo, che identifica l’esposizione fisica femminile della cultura occidentale (oggi la nudità è esibita con molta ostentazione più che con tranquilla naturalezza) con la copertura velata delle donne nella cultura islamica. Pur denunciando il disprezzo espresso verso le donne dalle religioni monoteistiche, finisce per affermare che il problema è politico: non si tratta dei testi sacri, ma di quanto essi siano strumentalizzati in senso politico. Il fondamentalismo religioso - di qualsiasi parrocchia- "mette il velo alla mente della gente", ma nudità e velo vanno di pari passo: "le donne o portano il velo per religione, o sono nude per consumismo". Quello che definisce come paradosso islamico-occidentale rimanda allo stesso disprezzo (o non rispetto) del genere femminile: le donne identificate solo come oggetti sessuali. Difficile non pensare a "lo stupro" di Magritte: un quadro in cui un corpo femminile sembra un volto, e viene contornato da capelli. Si tratta in sostanza solo di un corpo femminile. Non c’è altro. Ed io concordo nel leggere in una visione così limitata la violenza irrispettosa e orribile dello stupro.

  • Di Pitta (---.---.---.146) 2 settembre 2016 20:03

    Anno 1150 il cronista arabo Usama a proposito dei Franchi: "essi non hanno senso dell’onore, permettono alle loro mogli di rivolgere la parola ad altri uomini, che le guardano, le toccano, baciano loro la mano". Ciò che l’islam non ammette è la promiscuità. L’incontro di uomini e donne in uno spazio pubblico promiscuo è ciò che l’islam odia e teme, perché lo considera fonte di fitna, disordine e conflituto, morale e sociale. Lo spazio nell’islam è importantissimo per l’uso che ne fa, per come viene frazionato (fratturato?). Parole che in noi suscitano solo orrore, come separazione apartheid segregazione, se corredate con l’aggettivo "sessuale" trovano la loro giustificazone a difesa della purezza della donna, e della santità della famiglia.

  • Di Pitta (---.---.---.146) 2 settembre 2016 20:25

    In difesa della promiscuità. Nella lingua italiana questa parola ha un significato neutro (condivisione di uno spazio) e uno negativo (infedeltà immoralità). Chi aborre la promiscuità è uno che "fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio", e comunque "prevenire è meglio che curare". In una parola: paura. Ma il punto è proprio questo: la separazione genera più paura, più rimorso, e paradossalmente più violenza. Mi pare importante, eppure non se ne parla. Perché?

  • Di Fabio Della Pergola (---.---.---.62) 3 settembre 2016 14:01
    Fabio Della Pergola

    La promiscuità è la possibilità di genti diverse di conoscersi, apprezzarsi (o no), frequentarsi (o no), gioire dell’incontro (o no), trovare modo di fecondarsi a vicenda (o no). Vale a dire prendere rapporto e poi (ma solo poi) decidere se accettare o rifiutare l’identità dell’altro. In questo POI c’è tutto un mondo, che significa sapere (o anche solo intuire) ciò che l’altro è e agire di conseguenza. Se tutto ciò avviene PRIMA del rapporto non c’è altro che un PRE-giudizio. E vale anche (tanto più) del rapporto fra uomini e donne. Quindi sì, sempre, alla promiscuità o alla possibilità di vivere rapporti promiscui. Tutto ciò che la impedisce va contrastato, combattuto, rifiutato. Ma deve essere una battaglia culturale, non può essere un’imposizione per legge. Perché le imposizioni vengono vissute come una violenza privata e provocano reazioni di arroccamento identitario e chiusura. Cioè esattamente il contrario di quello che ci si propone.

  • Di Marina Serafini (---.---.---.65) 6 settembre 2016 00:50
    Marina Serafini

    La separazione genera ANCHE paura, rimorso e violenza. A me piace pensare che susciti curiosità, interesse e voglia di dialogo, di incontro e di conoscenza. E spesso questo accade. Perchè non se ne parla?! In fondo, ci capita di aver paura di ciò che non conosciamo, che riteniamo talmente lontano da noi che chissà quale effetto tremendo potrebbe mai generare. Ecco perchè non se ne parla: proprio perchè fa paura! E ciò che fa paura, cerchiamo di tenerlo lontano, anche dal pensiero. Figurarsi poi dalle parole! Oppure se ne parla in modo negativo e spregiativo: è il sistema più immediato di ergere mura difensive.

    La battaglia culturale è fondamentale ma, a volte, le persone fanno fatica ad affrontarle e a mettersi in gioco. Esporsi è rischioso e FA PAURA. Sempre la stessa limitante maledetta emozione... Purtroppo vige molto anche la politica rassegnata del "tanto non cambia nulla, tanto non serve a nulla", che alimenta una frustrazione che non può non sfogare all’interno, come malattia, o all’esterno, con azioni belligeranti: la sana aggressività vitale si trasforma in violenza. 

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