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Bruciare il Corano è libertà di espressione?

È bastato che un rifugiato iracheno a Stoccolma bruciasse una copia del Corano per riaccendere – ironia della semantica – il dibattito su blasfemia, hate speech e libertà di espressione. In pochi istanti la notizia è divenuta virale e ha suscitato non poca irritazione nel mondo islamico, dove il tema della libertà di espressione e della libertà religiosa sta particolarmente a cuore ai governanti locali, da sempre devoti come dei novelli Voltaire alla promozione del pluralismo.

Del resto, figure come quelle di Ali Khamenei, Mohammad bin Salman Al Saud e Recep Tayyip Erdogan non possono che suscitare ammirazione per il loro impegno a favore dei diritti umani: a confronto con loro, Rosa Parks era una free rider qualsiasi, o – per dirla col dialetto romano – una passeggera scroccona.

Tra i tre, è stato proprio il presidente turco – da poco rieletto – a farsi portavoce dello sdegno del mondo islamico, facendo sfoggio delle sue doti diplomatiche: «Alla fine insegneremo agli arroganti occidentali che insultare i musulmani non è libertà di pensiero». C’è senz’altro da dire che Erdogan è abile nel definire la libertà di pensiero, nel senso etimologico del termine (de-finire = imporre dei confini, delimitare).

Non a caso, grazie al suo impegno la Turchia ha smesso di essere uno dei paesi più liberi del Vicino Oriente e si è portata su valori più in linea con quelli dei suoi vicini, scivolando fino al 149esimo posto nella classifica dei paesi per libertà di stampa. Abbastanza ironicamente, tra l’altro, si può solo immaginare quale sarebbe stata la reazione delle intellighenzie laico-minimaliste se un leader bianco e occidentale avesse usato le stesse parole di Erdogan, proponendo di “insegnare” qualcosa agli “arroganti mediorientali”.

Tralasciando le dichiarazioni e i sentimenti del dittatore turco e lasciando spazio al ragionamento, il gesto sarebbe grave se fosse stata data alle fiamme l’unica copia del Corano in circolazione, oppure (anche se in misura minore) se la copia in questione fosse stata la copia originale, anziché una qualsiasi di tre miliardi di copie fisiche attualmente presenti sulla terra.

Per mettere in prospettiva, è stato eliminato lo 0,00000003% delle copie fisiche del Corano, eliminazione in ogni modo resa del tutto inutile dall’emissione continua di nuove copie: il solo complesso del Re Fahd a Medina ne stampa 10 milioni di copie ogni anno. L’onta della perdita di un patrimonio culturale che – nel bene e (soprattutto) nel male – ha influenzato la storia dell’umanità, quindi, è decisamente sventata.

Si fa fatica poi a comprendere in che misura il gesto sia un atto discriminatorio o addirittura “razzista”, come lo hanno definito in molti. Perché un gesto sia definibile come “razzista”, a rigor di logica (e, volendo, di etimologia) è necessario che ci sia una “razza” (o, se si preferisce, una “etnia”).

È risaputo che l’immaginazione non ha confini, ma ce ne vorrebbe davvero molta (opportunamente rafforzata dall’alcol) per pensare che il Corano sia una razza, o che lo sia l’islam. Le religioni non sono di certo né un’identità, né tantomeno una “razza”.

Sono piuttosto delle ideologie, e ciò che le distingue dai tratti identitari veri – come l’identità sessuale o il colore della pelle – è che hanno un impatto sulla vita degli altri. Se è libera espressione bruciare la bandiera rossa, la croce uncinata o le bandiere dei paesi sgraditi, non si capisce perché bruciare il Corano non possa esserlo.

Bruciare i testi sacri è senz’altro un gesto pesante, offensivo e provocatorio, ma se la libera espressione non include anche il dileggio e l’offesa verso le ideologie si fa prima a sospendere qualsiasi dibattito politico e praticare il silenzio collettivo.

Chi vuole vedere del razzismo in un gesto che al più si può definire come provocatorio controbatte che la parte lesa sono i musulmani. L’esistenza di una “razza musulmana” è però altrettanto difficile da dimostrare, perché i musulmani appartengono alle etnie più disparate anche se, per semplificazione, si tende spesso a far coincidere erroneamente i termini “musulmano” e “arabo”.

Pur riconoscendo che nell’uso comune i due termini vengono usati come sinonimi, essere musulmano non implica essere arabo, né tantomeno essere arabo implica essere musulmano.

Esistono moltissimi arabi atei o agnostici, e tra questi c’è il rifugiato iracheno che ha dato alle fiamme il Corano. Di lui sappiamo poco, ma anche senza conoscere la sua biografia sappiamo bene la condizione terribile in cui versano atei e agnostici nei paesi soggiogati dall’islam politico.

In nome di Allah e del Corano, i regimi fondamentalisti opprimono, torturano e uccidono minoranze sessuali, religiose e politiche. Se c’è qualcuno che è minacciato, in questo momento, è proprio il rifugiato iracheno: la vigliacca aggressione ai danni di Salman Rushdie ha dimostrato, se ce ne fosse bisogno, quanto gli atei ex-musulmani siano una comunità da proteggere.

Troppo spesso, invece, la sedicente sinistra “laica” li tiene a debita distanza, col risultato che nel migliore dei casi finiscono per trovare asilo politico in una destra tutt’altro che laica, nel peggiore finiscono accoltellati.

Ciò che è curioso è che, in un’epoca in cui si va con massima scrupolosità alla ricerca di tracce di discriminazione in molti capolavori letterari del passato, che non hanno avuto alcun impatto sulla politica, tra i pochi testi che si salvano ci siano quelli sacri – in nome dei quali, da millenni, vengono commesse le atrocità più disparate.

Chi crede nella libertà di espressione sa che la soluzione non sta certo nella cancellazione, e sa che ai roghi va sempre preferito il dibattito. Ma sa anche che libertà di espressione vuol dire anche (e soprattutto) libertà di essere controversi e provocatori.

Simone Morganti

 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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