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Borsellino: la solitudine di una famiglia. Continua il processo sulla strage di Via d’Amelio

di Luca SOLDI

Il 19 ottobre è arrivata la deposizione dei figli del giudice Borsellino, a Caltanissetta, nel processo sulla strage di via D’Amelio il 19 luglio 1992 a Palermo. Sono emerse parole forti che innescano nuovi dubbi, su quei giorni che culminarono nel periodo delle stragi di Capaci ed appunto, di via D’Amelio. Parole che dette dai figli, dalla famiglia, provocano nuovo imbarazzo, impongono la necessità di continuare a scavare.

Confermando l’impressione che ci sono stati, da più parti, comportamenti poco lineari.

Il primo a parlare è stato Manfredi Borsellino: “Dopo Capaci mio padre aveva fretta di essere sentito dai colleghi di Caltanissetta che indagavano sull’eccidio e non si spiegava perché non lo convocassero. Tanto che in un’occasione pubblica fece un intervento con cui tentò, secondo me, di sollecitare una convocazione. Dopo la strage di Capaci mio padre usava l’agenda rossa in modo compulsivo. Scriveva costantemente. E si trattava sicuramente di appunti di lavoro e dell’attività frenetica di quei giorni”.

Il figlio del giudice ucciso insieme alla scorta, si è detto certo che nell’agenda, scomparsa dopo la strage dalla borsa in cui il magistrato la custodiva, ci fossero informazioni importanti: “Mio padre dopo la morte di Falcone era consapevole che sarebbe toccato a lui e di essere costantemente in pericolo. Aveva l’esigenza di lasciare tracce scritte. Non poteva metterci in pericolo rivelandoci delle cose”. Manfredi Borsellino si e’ dichiarato dunque certo che se l’agenda rossa fosse stata trovata le indagini sulla morte del padre avrebbero avuto una svolta ben diversa.

Così seguitando, Manfredi, ha detto: “Nessuno ci chiese perché attribuivamo tanta importanza all’agenda rossa. E invece credo che investigativamente fosse importante fare accertamenti“. E scendendo nei particolari: “Quando l’allora capo della Mobile Arnaldo La Barbera ci ridiede la borsa e vedemmo che l’agenda non c’era e chiedemmo conto della cosa, si irritò molto. Sembrava che gli interessasse solo sbrigarsi e che gli stessimo facendo perdere tempo. Praticamente disse a mia sorella Lucia che l’agenda non era mai esistita e che farneticava. Usò dei modi a dir poco discutibili”.

E’ stata poi la volta di Lucia Borsellino: “Il 19 luglio del 1992, il giorno della sua morte, vidi mio padre mettere nella borsa, tra le altre cose, un’agenda rossa da cui non si separava mai, non so perchè la usasse – ha aggiunto – o cosa ci fosse scritto perchè non ero solita chiedergli del suo lavoro”.

E poi confermando quanto dichiarato dal fratello: “Qualche mese dopo la strage l’ex questore Arnaldo La Barbera ci restituì la borsa di mio padre. L’agenda rossa non c’era più. Io mi lamentai della scomparsa e chiesi che fine avesse fatto. La Barbera escluse che ci fosse stata e mi disse che deliravo”.

Un racconto impietoso quello di Lucia Borsellino, figlia del giudice assassinato dalla mafia ne 1992, deponendo al processo a boss e falsi pentiti per l’eccidio di via D’Amelio. Lucia ha ricordato il teso scambio di battute con La Barbera, che coordinò il pool che indagò sulle stragi Falcone e Borsellino: “Quando gli manifesti il mio fastidio mi disse che avevo bisogno di aiuto psicologico”.

La figlia del magistrato ha raccontato di avere successivamente trovato a casa del padre un’altra agenda, di colore grigio, che consegnò all’allora pm di Caltanissetta Anna Palma. “Visto quanto accaduto nella storia di questo paese chiesi che ne facessero delle fotocopie e che acquisissero quelle, ma che l’originale ci fosse restituito”.

La figlia del giudice Borsellino ha ricordato che l’ex capo del Ros, Antonio Subranni, dopo aver appreso delle dichiarazioni accusatorie fatte contro di lui dalla vedova Borsellino, aveva messo in dubbio le capacità mentali della donna da anni malata di leucemia: “Disse che aveva l’alzheimer – ha aggiunto – ma non era vero”, invece vale la pena di ricordare che Agnese Borsellino, a distanza di 15 anni dall’assassinio del marito, raccontò ai pm di Caltanissetta che il marito le aveva confidato di rapporti tra Antonio Subranni e la mafia.

“Credo – ha detto Lucia, in qualche modo spiegando il perchè del ritardi nelle dichiarazioni della madre – avesse paura di essere lasciata sola dalle istituzioni e che noi potessimo rimanere isolati. Ma col tempo si è sentita più libera e la sua sete di giustizia si è andata affermando sempre di più, anche perchè le preoccupazioni nei nostri confronti si andavano attenuando”.

Concludendo la sua testimonianza Lucia ha speso qualche parola anche a riguardo di Bruno Contrada: “Una volta un mio ex fidanzato chiese a mio padre cosa pensasse di Bruno Contrada e lui si turbò molto. Gli fece capire che era una persona di cui non si doveva parlare”. Parole che lasciano l’amaro in bocca, ancora una volta su chi ha ascoltato e letto di queste solitudini e dubbi, ed alle quali lo Stato non ha saputo o voluto rispondere.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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