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Bonus 600 euro ai parlamentari: l’irrisolta contrapposizione tra privacy e trasparenza

di Luigi Oliveri

Egregio Titolare,

nel nostro ordinamento giuridico si è introdotta l’eterna battaglia tra la trasparenza (disclosure, si direbbe in latinorum) e diritto alla riservatezza, E, come sempre, grazie ad un quantitativo spaventoso di norme e regole ridondanti, pletoriche e ricche di incisi e deroghe, alla fine spesso le regole si applicano ai nemici, ma si interpretano per gli amici o, comunque, per quelli che si ritiene opportuno “non disturbare”.

Il caso dei 5 parlamentari e delle altre diverse migliaia di consiglieri regionali, sindaci ed assessori che, quali partite Iva, hanno chiesto ed ottenuto dall’Inps il bonus da 600 euro è esemplare.

Esiste o no un diritto da parte della popolazione amministrata di sapere chi sono, i nomi ed i cognomi, di questi amministratori pubblici le cui cariche elettive dipendono dalle scelte del corpo elettorale?

L’Inps ha ritenuto che questo diritto non esista. Infatti, ha divulgato dei dati solo statistici e tipologici, ritenendo doveroso non svelare i dati “personali” connessi, cioè appunto le generalità di chi, pur avendo un trattamento economico pubblico (in alcuni casi molto lauto) non intaccato dalla crisi, ha comunque chiesto di beneficiare dell’indennità prevista per le partite Iva, come se avesse subito un invece inesistente danno alla propria attività.

È fondata la decisione dell’Inps? Questo è il bello, Titolare: non lo si può dire con granitica certezza.

La normativa che regola due diritti tra loro contrapposti e di pari portata e rango costituzionale, come trasparenza e privacy, non è mai stata in grado di fornire elementi chiari per stabilire quando e se uno dei principi prevalga sull’altro.

Basti pensare che al problema dell’accesso a dati ed informazioni della pubblica amministrazione l’Anac nel 2016 ha dedicato ben 34 fittissime pagine di “linee guida”. E che sul tema v’è una giurisprudenza semplicemente oceanica, navigando nella quale (come un’imbarcazione sbattuta tra le onde di Capo Horn in inverno) si trova realmente tutto e il suo contrario.

Insomma, Titolare, la Pubblica Amministrazione al momento di gestire informazioni di chiaro interesse generale, ma connesse ad identità precise di fatto “come fa, sbaglia”.

La tanto invocata “semplificazione”, predicata a parole ma ben poco professata normativamente, dovrebbe provare a bonificare in via prioritaria proprio questa palude normativa, che induce inevitabilmente a scelte da “amministrazione difensiva”, come quella adottata dall’Inps, che ha ritenuto di non rendere pubblici i nomi degli amministratori pubblici beneficiari in modo certamente inopportuno del bonus.

Una scelta, quella dell’Inps, che pone al riparo dalla riprovazione dei “potenti” (sempre meglio non urtarli) e da eventuali responsabilità connesse ad un’imprudente rivelazione di dati, che implica rischi di responsabilità amministrative, erariali e penali non da poco (a completamento del quadro ipertrofico ed ipercomplicato della normativa).

In casi del genere, quindi, chi sia interessato a conoscere i nominativi, a meno che non si intervenga normativamente prima o l’Inps non riveda la propria posizione, non potrà far altro se non rivolgersi alla giustizia amministrativa.

Molte volte le Pubbliche Amministrazioni negano richieste di accesso, anche quello “civico generalizzato” alla luce del cosiddetto FOIA (il d.lgs 33/2013), contando sulla circostanza che il costo dei ricorsi al Tar è generalmente proibitivo; di fatto, la giustiziabilità dei dinieghi alle richieste di accesso avanti al Tar è un baluardo dell’opacità dell’azione amministrativa, perché molti rinunciano in partenza ad affrontare spese e tempi richiesti.

E laddove il legislatore ha provato a pensare ad una procedura contenziosa stragiudiziale, ha emanato una tra le normative più complicate e criptiche dell’intero ordinamento1. Eppure, Titolare, dovrebbe essere precipuo compito del legislatore non solo di “parlare” ai cittadini, ma anche alle varie magistrature.

La normativa deve risultare chiara e semplice, affinché sia possibile una buona attività tecnica “predittiva” di quali possano essere le decisioni giurisdizionali, le quali, se le regole fossero chiare e semplici, dovrebbero di rado portare all’ordalia del “privacy sì, privacy no” nascosta, oggi, dietro qualsiasi procedimento connesso all’accesso.

La scelta dell’Inps di ritenere i nominativi dei politici beneficiari dei 600 euro è criticabile? Non è questo di cui si vogliono occupare questi pixel, Titolare. Sta di fatto che l’immensa confusione normativa comunque la supporta. Specie perché nel nostro ordinamento la trasparenza è molto enunciata e predicata, ma la mentalità profonda le è contraria. Come dimostra il presunto FOIA, teso a dilungarsi maggiormente sui casi di esclusione dell’accesso civico generalizzato che a regolare in modo lineare e semplice un accesso consentito sempre e comunque, salvo pochi e tassativi e chiarissimi impedimenti.

Nel già citato oceano in tempesta della normativa sull’accesso, le viste Linee Guida dell’Anac, comunque, ci informano che la trasparenza, nel caso in cui l’accesso a dati ed informazioni riguardi precise persone fisiche, può essere limitata laddove la conoscibilità di tali dati possa determinare un “impatto sfavorevole” nei confronti dell’interessato.

L’Anac, comunque, precisa che la verifica dell’impatto va effettuata tenendo conto anche del “ruolo ricoperto nella vita pubblica” e anche della “attività di pubblico interesse svolta dalla persona cui si riferiscono” i dati.

Per mesi, lo scorso autunno-inverno, la stampa si è lambiccata sul problema della pubblicazione dello stato patrimoniale dei dirigenti pubblici, richiesto da molti, perché ritengono i dirigenti pubblici alla stessa stregua dei politici e, quindi, soggetti alle medesime regole di trasparenza.

La Corte costituzionale, con la sua sentenza 20/2019 ha ritenuto, invece, che le posizioni dei dirigenti pubblici non appartenenti ai massimi vertici (questi ultimi sono soggetti alle medesime regole di trasparenza valevoli per i politici, perché scelti direttamente da questi anche se non prevalentemente in base alla loro personale adesione alla politica) siano ben distinte da quelle dei politici. Solo per questi ultimi la normativa può e deve, opportunamente, consentire un accesso automatico, mediante pubblicazione dei redditi e del patrimonio, poiché i politici, destinatari originari delle regole sulla pubblicazione dei patrimoni, secondo la Consulta

[…] sono titolari di incarichi che trovano la loro giustificazione ultima nel consenso popolare, ciò che spiega la ratio di tali obblighi: consentire ai cittadini di verificare se i componenti degli organi di rappresentanza politica e di governo di livello statale, regionale e locale, a partire dal momento dell’assunzione della carica, beneficino di incrementi reddituali e patrimoniali, anche per il tramite del coniuge o dei parenti stretti, e se tali incrementi siano coerenti rispetto alle remunerazioni percepite per i vari incarichi.

Insomma, la sentenza 20/2019 rivela che i componenti elettivi degli organi di governo in effetti rivestono quel “ruolo nella vita pubblica” differenziato di cui parla l’Anac, tale da giustificare un’attenuazione molto rilevante del diritto alla riservatezza, proprio perché il controllo pubblico degli elettori sui comportamenti dei loro rappresentanti politici è un elemento irrinunciabile per la formazione ed il mantenimento del consenso.

Il “pregiudizio” che deriverebbe in capo al politico dalla divulgazione del proprio nominativo quale beneficiario del bonus da 600 euro dell’Inps sarebbe, quindi, non un vulnus al proprio diritto alla riservatezza, bensì una componente essenziale del proprio ruolo pubblico, che richiede una apertura ed una trasparenza molto più ampi di quelle previste per i normali cittadini.

Quelle tratte, Titolare, sono conclusioni del tutto definitive ed incontrovertibili? No, certo che no. Sarebbero possibili argomentazioni contrarie, facilmente supportabili con molte delle sentenze tratte dall’immensità del contenzioso connesso al conflitto accesso/privacy.


1Si tratta dei commi 7 e 8 dell’articolo 5 del d.lgs 33/2013, che si trascrivono di seguito, risparmiando qualsiasi commento:

7. Nei casi di diniego totale o parziale dell’accesso o di mancata risposta entro il termine indicato al comma 6, il richiedente può presentare richiesta di riesame al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, di cui all’articolo 43, che decide con provvedimento motivato, entro il termine di venti giorni. Se l’accesso è stato negato o differito a tutela degli interessi di cui all’articolo 5-bis, comma 2, lettera a), il suddetto responsabile provvede sentito il Garante per la protezione dei dati personali, il quale si pronuncia entro il termine di dieci giorni dalla richiesta. A decorrere dalla comunicazione al Garante, il termine per l’adozione del provvedimento da parte del responsabile è sospeso, fino alla ricezione del parere del Garante e comunque per un periodo non superiore ai predetti dieci giorni. Avverso la decisione dell’amministrazione competente o, in caso di richiesta di riesame, avverso quella del responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, il richiedente può proporre ricorso al Tribunale amministrativo regionale ai sensi dell’articolo 116 del Codice del processo amministrativo di cui al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104.

8. Qualora si tratti di atti delle amministrazioni delle regioni o degli enti locali, il richiedente può altresì presentare ricorso al difensore civico competente per ambito territoriale, ove costituito. Qualora tale organo non sia stato istituito, la competenza è attribuita al difensore civico competente per l’ambito territoriale immediatamente superiore. Il ricorso va altresì notificato all’amministrazione interessata. Il difensore civico si pronuncia entro trenta giorni dalla presentazione del ricorso. Se il difensore civico ritiene illegittimo il diniego o il differimento, ne informa il richiedente e lo comunica all’amministrazione competente. Se questa non conferma il diniego o il differimento entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione del difensore civico, l’accesso è consentito. Qualora il richiedente l’accesso si sia rivolto al difensore civico, il termine di cui all’articolo 116 del Codice del processo amministrativo decorre dalla data di ricevimento, da parte del richiedente, dell’esito della sua istanza al difensore civico. Se l’accesso è stato negato o differito a tutela degli interessi di cui all’articolo 5-bis, comma 2, lettera a), il difensore civico provvede sentito il Garante per la protezione dei dati personali, il quale si pronuncia entro il termine di dieci giorni dalla richiesta. A decorrere dalla comunicazione al Garante, il termine per la pronuncia del difensore è sospeso, fino alla ricezione del parere del Garante e comunque per un periodo non superiore ai predetti dieci giorni”.

 

Foto: Wikipedia 

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