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Bologna guardata dai centri sociali

Serafino D’Onofrio e Valerio Monteventi ne raccontano le storie in Berretta Rossa

«Marcomari si sveglia di malumore. Tira su la tapparella, si affaccia alla finestra e pensa di essere ancora in un sogno. Due ruspe stanno ultimando la demolizione del Berretta rossa, senza pietà. Va a dare un’occhiata e trova solo macerie, sedie spaccate e due sacchi a pelo impolverati. È il 14 agosto 1976 e si sente derubato di una cosa grande». Avete appena letto un significativo brano del libro Berretta Rossa. Storie di Bologna attraverso i centri sociali (Prefazione di Valerio Evangelisti, Edizioni Pendragon, pp. 228, € 16,00), scritto in coppia da Serafino D’Onofrio e Valerio Monteventi, vale a dire due protagonisti delle lotte sociali nel capoluogo felsineo.
Non importa chi sia Marcomari. Importa cosa è stato il Berretta Rossa di Santa Viola. Un centro sociale ante litteram, di vita breve, ma di storia lunga, se consideriamo che da allora si sono moltiplicati quei luoghi, quelle forme di esperienza sociale e culturale che hanno cambiato la vita di ragazzi e ragazze più o meno giovani e che tuttora rappresentano un luogo importante della città, un punto di riferimento, un laboratorio politico, uno spazio culturale, uno strumento di lettura e di analisi per chi volesse capire o semplicemente ricordare la storia di Bologna degli ultimi decenni.

I protagonisti non sono loro: Guazzaloca, Cofferati, Delbono, per una volta, sono delle comparse, dei personaggi secondari, dei figuranti. Al centro della scena ci sono “Gianola”, “Franberri”, “Giampiero Avvelenato”, “Melania”, “Igor il Tozzo”, “Vinicio il Pauroso”. Nomi di fantasia, ma storie di realtà. E ci sarà tra i lettori chi si identificherà e «proverà il brivido di sentirsi un eroe dei cartoni animati». Di quei film per l’infanzia che esigono un pubblico adulto. Un pubblico animato dalla voglia di imparare, di recepire proposte e metodi che tanto potrebbero alimentare quella dialettica sterile e monotona che riempie le odierne stanze grigie della sinistra, fatte di bottoni sporchi, dentro palazzi semivuoti. Il Berretta Rossa sembrava tutto tranne che vuoto. Tutto tranne che grigio, sterile e monotono. Marcomari e i suoi amici gradivano un tipo di ambiente diverso. Semplice, ma “ricco”, «una costruzione vecchia e un po’ malandata. Ma c’è un campo di calcio regolamentare, per gli allenamenti. Ci sono i canestri del basket, una sala per la musica, una stanza adibita a camera oscura e la stanza delle attività, con una vecchia e monumentale stufa di terracotta e il televisore».

I luoghi del libro sono i luoghi della città: oltre al Berretta Rossa di Santa Viola, ci sono la palazzina di viale Vicini 18, il bar Zenit di via San Donato, l’hotel Bologna, davanti alla stazione, l’Isola nel Kantiere, sul retro dell’Arena del Sole, il collettivo Chourmo in via Mazzini 174, la Fabbrika in via Sebastiano Serlio, il primo il secondo e il terzo TPO in via Irnerio, in viale Lenin e in via Casarini, lo spazio di via Ranzani 4 e poi l’ex mercato ortofrutticolo di via Fioravanti, l’attuale Xm24. Ci sono poi le vicissitudini infinite del Crash che si sposta da Avesella a San Donato, poi in due diversi spazi in via Zanardi, e in via Donato Creti; poi ancora il Livello 57, da via dello Scalo 21 a via Muggia, sotto il ponte di Stalingrado, all’attuale sede in via Battirame; infine il Bartleby, che entra ed esce ripetutamente da via Capo di Lucca 30 e ora sta in San Petronio vecchio, nell’ex magazzino della Croce Rossa, e il Vag61, che nasce con l’occupazione dell’ex dopolavoro in Via Azzo Gardino 61, e oggi vive in via Paolo Fabbri 110. Occupazione e sgomberi, scontri e contestazioni, ribellione e solidarietà. La storia dei centri sociali è la storia di sentimenti e valori che miracolosamente sono capaci di aggregare, unire, anziché isolare e allontanare. L’originalità sta nella capacità, quasi esclusiva, di fondere i caratteri tipici della storia della sinistra con quelli “rivoluzionari” della storia della socialità. Per dirla alla francese: liberté, égalité, fraternité.

«La terza parola, la più trascurata, è quella che meglio definisce l’esperienza dei centri sociali»: Valerio Evangelisti, nella Prefazione, riferendosi al famoso motto della Rivoluzione francese, analizza laconicamente ma sapientemente il valore aggiunto che conservano questi luoghi. Diventa poi simpaticamente crudele quando afferma che la sinistra storica, quella istituzionale, «fece del suo meglio per reprimere le nuove idee, pose al centro del discorso una lenta penetrazione nelle istituzioni, poltrona per poltrona, assessorato per assessorato. Mobilitò spie, esaltò la delazione, usò la forza solo contro chi la contestava da sinistra. Oggi si può dire soddisfatta». È difficile e forse superfluo definire quanto siano effettivamente a sinistra i centri sociali, e quanto lo siano rispetto alla Sinistra partitica. La distanza emerge dalla loro capacità congenita di sperimentare, ideare, innovare, e per quella maturità rivoluzionaria di chi insegue il cambiamento, l’autogestione, il conflitto. Qualità e quantità che i palazzi semivuoti hanno probabilmente persino dimenticato. Ma forse, come direbbe Marcomari, è più bello e più giusto definirli e ricordarli semplicemente «una cosa grande», che dobbiamo stare attenti a non farci rubare.



L’immagine: la copertina del libro Berretta Rossa.

Simone Jacca

(LM EXTRA n. 24, 16 maggio 2011, supplemento a LucidaMente, anno VI, n. 65, maggio 2011)
 

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