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Avevano spento anche la luna, di Ruta Sepetys

"Chiusi la porta del bagno e mi guardai allo specchio. Non avevo idea di quanto in fretta sarebbe cambiato il mio viso, sfiorendo. Se l’avessi saputo, avrei fissato più a lungo il mio riflesso, cercando di memorizzarlo. Era l’ultima volta, per più di dieci anni, in cui mi sarei guardata in uno specchio vero".

Ispirato a una storia vera, Avevano spento anche la luna (Garzanti) accende la luce su una delle pagine più terribili e sconosciute della storia recente, quella delle deportazioni delle popolazioni baltiche volute da Stalin: milioni di persone confinate per anni nei gulag in condizioni ai limiti dell’umano, delle quali il resto del mondo era completamente all’oscuro. Pagine intense e commoventi per non dimenticare di quali atrocità sono capaci gli esseri umani, ma anche per ricordare come la natura misteriosa dello spirito umano non si arrende mai e lotta per la vita anche quando tutto sembra perduto.

A raccontare la storia in prima persona è Lina, un’adolescente come tante. Quindici anni, appassionata di pittura, e di Munch in particolare, vive con il padre Kostas, rettore dell’università, la bellissima madre Elena e il fratello Jonas di qualche anno più piccolo. La loro è una famiglia felice e benestante, di quelle che ogni anno si mette in posa sul divano di velluto per farsi fotografare negli abiti più eleganti. Finché un giorno, è il 14 giugno del 1941, cambia tutto. La polizia sovietica irrompe nella loro bella casa e costringe Lina, la madre e il fratello a seguirli verso una destinazione ignota. Il padre è già sparito e non sanno dove si trova. La loro unica colpa: essere lituani ed esistere.

Inizia così per la ragazza e la sua famiglia una odissea allucinante tra le steppe russe fino all’arrivo in un campo di lavoro in Siberia dove la vita è scandita solo da ghiaccio e buio, nulla e morte. Dove il giorno e la notte non conoscono più differenza e ogni istante è una lotta per la sopravvivenza contro la fame, la sete, il gelo e la malattia. Gli occhi di Lina sono costretti a incrociare gli sguardi carichi di dolore inflitto dalla brutalità della NKVD (Narodnyj komissariat vnutrennich del, commissione governativa dell’Unione Sovietica per gli affari interni): quelli delle madri che piangono i figli, quello dei figli che piangono i genitori, quello delle mogli che piangono i mariti, quello dei mariti che piangono le mogli. E l’unica cosa che riesce a farle sopportare tanto orrore è il pensiero che se un giorno uscirà viva da quell’inferno userà la sua arte e la scrittura per onorare la memoria della sua famiglia e delle migliaia di famiglie sepolte in Siberia. 

Elena Grimi

Questo articolo è stato pubblicato qui

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