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Auguri

Una parola che ricorre continuamente in tutto il mondo cattolico e cristiano. Talvolta, o spesso, è anche un modo di liquidare, nella maniera più sbrigativa possibile, un certo senso del dovere nel celebrare un incontro, una ricorrenza, o qualcosa di festoso e di straordinario. 

Così in questi giorni usiamo la parola "auguri" incontrando per strada una persona cara o amica o, se non l’abbiamo proprio davanti, scrivendole un messaggio. I social network ormai, ci hanno invaso con questa parola. Per questo la arricchiamo con immagini divenute rituali: alberi, stelle rosse, neve che scende dal cielo, foreste imbiancate, sfere luccicanti, pacchi e pacchetti sotto un abete, e via di seguito. La storia dell’albero natalizio è difficile da ricostruire. 

A volere essere certosini forse ci sono tracce nel vecchio Testamento. In epoche a noi più vicine pare che arrivi dai Paesi del Nord europeo, forse dall’Estonia, da dove il difficile radicamento nel Mediterraneo sembra si sia confermato nel secolo XV. Insomma è un dono del Nord che si afferma in tutto il mondo e domina soprattutto nei Paesi a cultura mediterranea, dove l’unico simbolo del Natale che si conosceva anche quando ero ragazzo io, era solo ed esclusivamente il presepe.

Ma si vede che l’albero con i doni, simbolo del consumismo, ha preso il sopravvento sui personaggi dell’antica scena del mondo agricolo di un tempo e sul significato di quelle figure umili che la animavano.Un falegname ridotto alla fame e alla persecuzione, una ragazza sfinita e incinta costretta a fuggire, un bambino che nasce da lì a poco in una grotta riscaldato, secondo tradizione, da un bue e un asinello. La fuga, la persecuzione, il rifugio in una grotta.

Perché gli uomini non hanno prestato asilo, non li hanno accolti. Ecco le condizioni obiettive e attuali. Non sono certo gli attori del luccicante albero. Che sia avvenuta questa mutazione genetica, ci fa capire molte cose della qualità degli auguri che ci facciamo oggi e che – vi confesso – mi fanno senso e paura. Per il vuoto che esprimono, per la retorica a cui obbligano, per la deviazione del vero significato di augurio a cui questa bellissima parola è stata sottoposta. Come quasi tutto il nostro lessico che ci serve a esprimere cose che di fatto non ci convincono e che hanno un altro significato.

I latini chiamavano "augur" chi preannunciava buone notizie. Anche il nome dell’imperatore Augusto stava a significare che egli era stato consacrato dagli "àuguri", una casta sacerdotale molto autorevole e rispettata che dal volo degli uccelli, dai loro richiami e dal loro modo di cibarsi prediceva il futuro.

La parola infatti ha una radice che deriva da "augere" che significa aumentare, che in alcune aree linguistiche ha anche il senso di "ajas", forza. Ma ha soprattutto un’etimologia che ci riconduce ad "avis", che in latino significa uccello. P

otremmo anche azzardare l’ipotesi che è proprio il libero volo degli uccelli, il loro librarsi nell’aria, a darci l’idea del grande patrimonio che abbiamo ereditato con il sole, la luna, le stesse e tutto ciò che di buono esiste sul nostro pianeta.

E che il vero augurio che possiamo farci, sempre, è che ciascuno di noi faccia la sua piccola parte, per avere rispetto di tutto ciò che esiste, a cominciare dalla tragica condizione umana.

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