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Anche Unicredit tra le banche che finanziano i cambiamenti climatici

Sierra Club, Oil Change International, Rainforest Action Network e Banktrack lanciano il rapporto Banking on Climate Change sui finanziamenti degli istituti di credito al settore dei combustibili fossili. Lo studio si concentra in particolare sulle attività che più contribuiscono a esacerbare il problema dei cambiamenti climatici. 

di Re: Common

Così emerge che fra il 2014 e il 2016 le principali banche del pianeta hanno erogato ben 290 miliardi di dollari per progetti legati agli extreme fossil fuels, quali l’estrazione nell’Artico e a profondità estreme, le miniere e le centrali a carbone, le sabbie bituminose e il gas naturale liquefatto. Alla stesura della pubblicazione hanno contribuito 28 organizzazioni della società civile internazionale, tra cui Re:Common.

Nella classifica delle banche meno amiche del clima “trionfano” Bank of China, China Construction Bank e JP Morgan Chase, ma in trentesima posizione troviamo anche l’italiana Unicredit, con prestiti per 2,094 miliardi di dollari nel triennio 2014-2016. Salta all’occhio come l’istituto guidato dall’ad Jean-Pierre Mustier sia uno dei pochi tra i quasi quaranta mappati che dopo l’Accordo di Parigi (2015) abbia aumentato invece di diminuire i propri investimenti, passando da 554 milioni a ben 960 milioni di dollari.

Unicredit è pesantemente coinvolta nel business dell’estrazione nell’Artico e tra le più munifiche nei prestiti per il comparto carbonifero, tanto da rimediare voti molto bassi da parte dei ricercatori delle quattro organizzazioni autrici di Banking on Climate Change.

Per quanto riguarda le attività nella regione Artica, supportate con quasi 500 milioni di dollari, l’istituto di credito italiano nella lista ad hoc è settimo dietro le tre europee Deutsche Bank BNP Paribas e Barclays.

“Non è più tempo di cercare scuse per giustificare i finanziamenti a progetti con impatti ambientali estremi come gli oleodotti che trasportano il greggio frutto dell’estrazione delle sabbie bituminose” ha dichiarato Yann Luovel della rete Banktrack, che da 2003 anni monitora il comportamento delle banche sia in materia ambientale che di impatti sociali. Quando incontriamo i dirigenti dei più importanti istituti di credito, si dicono tutti fermamente contrari alle politiche di Trump sui cambiamenti climatici e professano di promuovere investimenti “puliti” e il dettato dell’Accordo di Parigi. Eppure il loro sostegno agli extreme fossil fuels dimostra che nei fatti sono molto vicini all’approccio di Trump”.

Nelle sue pagine conclusive il rapporto esamina anche come le banche, con le loro attività, in alcuni casi non siano riuscite a tutelare il rispetto dei diritti umani. Il caso più eclatante per l’anno 2016 è quello dei finanziamenti al Dakota Access Pipeline (DAPL), progetto segnato da continui abusi nei confronti delle popolazioni indigene. Sia negli Usa che a livello internazionale sono mesi che è attiva una campagna per chiedere ai vari istituti di credito di uscire dal DAPL. E i risultati cominciano a farsi vedere, dal momento che all’inizio del 2017 ABN AMRO, ING, BayernLB, Nordea e DNB sono uscite dal DAPL.

Negli Stati Uniti, le amministrazioni comunali di San Francisco, Seattle e Davis nei mesi scorsi hanno deciso di chiudere i loro conti con la Wells Fargo, “colpevole” di sostenere il DAPL ma anche altri progetti controversi.

Per scaricare il rapporto: https://www. banktrack.org/download/ banking_on_climate_change/ banking_on_climate_change_ 2017.pdf

Questo articolo è stato pubblicato qui

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