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Alto gradimento per il “Tokyo Dageki Dan”

Il concerto/spettacolo di tamburi giapponesi del “Tokyo Dageki Dan” continua a dimostrarsi interessante, anche per chi lo ha già visto più volte. I tamburi emanano un senso di sacralità, forse perché quelli a forma di barile, con la pelle naturale fissata da borchie, si trovano nei templi buddisti e shintoisti, le due principali religioni del Giappone.

Riascolto l’ensemble – un settetto questa volta anziché un ottetto – giusto a distanza di un anno, sempre nella ‘Furosato Hall’ del teatro “Fuchu no Mori” a Fuchu, uno dei comuni che compongono la città metropolitana della capitale.

Il concerto è diviso in due tempi, separati da una pausa di 15 minuti, in ognuno dei quali si ascoltano sei brani. Trovo i musicisti ancora più affiatati, rispetto sia al primo, nel 2016, che al secondo, nel 2018, dei concerti a cui ho assistito.

I tamburi protagonisti, accanto a quelli a barile, sono gli “Shime-Daiko, ossia strumenti le cui pelli sono tenute in tensione da corde.

Il brano di apertura, immancabile nella scaletta del gruppo, si chiama “O-Daiko”. Le luci gradatamente si spengono e nel buio si sente un potente colpo singolo sul tamburo, che si ripete in sequenza, dopo che il suono si è dileguato. Una sensazione di mistero, oppure di essere immersi in una natura rigogliosa, bella e selvaggia, di cui si ha timore perché non la si conosce, si impossessa della mente di chi ascolta. I colpi si fanno più frequenti, le luci si riaccendono per scoprire due musicisti che, senza vedersi, percuotono le pelli del tamburo, uno da una parte, l’altro da quella opposta. La bravura consiste nel riuscire a creare delle frasi, andando a tempo e senza ostacolarsi.

Ad eccezione di “Don Pan Bushi”, un brano folclorico della provincia di Akita, nel Giappone del Nord, tutti gli altri sono originali, sette dei quali sono composti da membri del gruppo.

La bellezza è sia visiva, perché gli strumenti sono affascinanti e se ne percepisce la fattura artigianale, sia uditiva perché la sonorità è ottima.

In “Enjin”, tre musicisti suonano ognuno una coppia di Shime-Daiko, appoggiata su una specie di carrello a rotelle, per poter essere facilmente trasportabile. Un tamburo ha un suono acuto, l’altro grave. I musicisti mantengono una base ostinata, sulla quale ognuno improvvisa dimostrando la propria bravura, ma senza eccedere in inutili virtuosismi.

In “Rin”, due musicisti suonano uno di fronte all’altro un tamburo a barile di medie dimensioni. E’ sorprendente come durante l’esecuzione riescano a cambiarsi di posto, senza danneggiare l’andamento del brano.

Rispetto al passato, si bada di più al sodo e c’è meno accentuazione del buffo, nel consueto pezzo “Tah Don Don Cha”. Tre musicisti uno accanto all’altro suonano tre coppie di tinozze lignee incastrate in una panca, colpendole sia al centro sia ai lati, enfatizzando gli ampi movimenti con espressioni del viso. Il suono che ne esce, piacevolmente secco, è il risultato di un perfetto sincronismo.

Il pezzo iniziale della seconda parte, “Hekikuu”, vede protagonista al piccolo flauto di bambù, Murayama Jiro (Yokohama, 1968), l’unico membro rimasto della formazione iniziale del 1995. Assieme al flauto, due Shime-Daiko, due Gong medio-grandi ed una struttura metallica, su cui sono appesi otto piccoli Gong. Ne esce un pezzo sussurrato, quasi a cercare di rilassarsi, prima di affrontare brani più impegnativi, come il successivo “Arata”.

Sei i percussionisti sul palco. Uno tiene il tempo con una coppia di piatti. Gli altri cinque hanno a tracolla gli Shime-Daiko, quattro medi e uno grande. C’è una percussione generale, con intersezioni ritmiche senza nessuna sbavatura. Poi il volume sonoro gradatamente si abbassa ed ogni musicista, a turno, si dirige verso la platea per eseguire un’entusiasmante improvvisazione, spostandosi, rullando, da una pelle all’altra, con tecnica unita ad agilità. Mi sembra infatti che, oltre alla difficoltà nel colpire, per suonare questi tamburi sia necessario apprendere tutta una serie di movimenti e gesti e mantenersi in ottima forma fisica.

Il concerto prosegue in crescendo fino al brano finale, “Hana – hayate”, in cui tutti i tamburi utilizzati sono sul palco : gli Shime-Daiko, quelli a barile di piccole e medie dimensioni, il gigantesco O-Daiko. I musicisti si dispongono a semicerchio e ognuno si ritaglia una sequenza solistica. Arriva Murayama con un flauto ancora più piccolo, dal suono più acuto rispetto al precedente. Esegue una melodia e poi indietreggia e con un balzo verso l’alto, raggiunge la postazione dell’O-Daiko, iniziando a percuoterlo con particolare vigore.

Gli applausi ritmici del pubblico preludono alla passerella finale, quando ognuno, con il proprio Shime-Daiko a tracolla, si sposta sulla ribalta per un breve momento solistico, presentato a gran voce – non ci sono microfoni – dagli altri colleghi.

Nell’ordine gli assolo sono eseguiti da Yokoyama Ryosuke, Tsuyuki Kazuhiro, Kato Takuya, Tagawa Tomofumi, Sato Akihiro e Hasegawa Toru. Per ultimo, ricompare dalle quinte il flautista per dar vita ad un breve solo su un tamburo a barile.

Cessata completamente la musica, tutti si inchinano gridando simultaneamente “Domo arigato gozaimashita” (“Grazie”), mentre dall’alto scende una piccola tela con sopra scritto il nome dell’ensemble, Tokyo Dageki Dan, letteralmente “gruppo di Tokyo dal colpo forte”.

Foto: Luma Kimura/Wikipedia

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