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Alla ricerca del lavoro perduto

I “piani per l’occupazione” sono solo dei miraggi che illudono la massa sempre crescente di disoccupati e precari, senza intaccare i guasti provocati dalla globalizzazione. Occorre, invece, cambiare la politica economica dell’Occidente.

Si parla tanto, negli ultimi anni, di “piani per il lavoro”. Ma quale lavoro? Le proposte sono encomiabili, specialmente quelle che intendono limitare la precarietà. Però non si capisce perché non si abbia il coraggio di ammettere che buona parte del lavoro sia stato scippato dalla più spietata e crudele forma di globalizzazione, con tanto di distrazioni governative (di tutti i governi occidentali). È da qui, sulla base di una constatazione responsabile, che si dovrebbe partire per cercare di riavviare il sistema. Valgono poco i correttivi ideali, quanto astratti: sbiancano solo un po’ la coscienza e purtroppo odorano di ipocrisia.

Il problema occupazionale è una cosa seria perché è legato alla possibilità di vivere decorosamente e degnamente. Se il lavoro viene a mancare, se, per bassi interessi oligarchici, va altrove, tutto il sistema rischia di incepparsi. Prima o poi, chi non può più vivere decorosamente e degnamente trascinerà con sé coloro che lo hanno privato di questa conquista civile: è il caso dell’Europa e dei cosiddetti Paesi emergenti, Cina in testa. Anche la Germania sta rischiando di pagare questo malessere creato in maniera maldestra: come può esportare a grande ritmo se la capacità di acquisto dei suoi clienti diminuisce?

L’incredibile di tutta questa vicenda è che essa è stata provocata da una speculazione selvaggia, alla quale sistemi politici evoluti hanno assistito, e assistono, basiti (quando va bene). La finanza selvaggia e indecorosa fa quello che vuole, mette a sacco gli Stati: su questo bisogna aprire gli occhi e chiedersi a cosa serva tanta cultura, tanto progresso intellettuale, se poi si finisce così, di nuovo in mezzo a una giungla. È assurdo avere come unica speranza una reazione dei lavoratori coatti per il miglioramento delle loro condizioni di vita, che consenta così l’allentamento delle esportazioni. E sperare che tutto ciò avvenga presto.

Il resto è un miraggio che getta fumo e fango sulla massa inerte, impotente e giustamente rabbiosa per il trattamento a essa riservato. Anche questa volta con eccessiva truculenza, avidità e cecità. Si tratta, invece, di cambiare il modello di sviluppo economico oggi imperante in Occidente.

Dario Lodi

Questo articolo è stato pubblicato qui

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