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Alcune riflessioni sullo sciopero del pubblico impiego a Ginevra

Intervista di un compagno a V.B, lavoratore del pubblico impiego svizzero, che ha partecipato allo sciopero che a novembre e dicembre ha agitato l’altrimenti tranquillo cantone ginevrino. Ne viene fuori una panoramica ricca di spunti di riflessione su uno degli scioperi più importanti degli ultimi anni nel paese elvetico. Ne sottolineiamo alcuni che a nostro parere sono particolarmente utili.

Innanzitutto, l’attacco al salario indiretto, al welfare state continua a prodursi ovunque. Ed anche la retorica è la stessa. Un debito troppo elevato e giù di tagli. Peccato che, come viene bene messo in risalto nell’intervista, i soliti noti continuino a macinare profitti, a ricevere incentivi dallo stato; noi, al contrario, lavoratori e disoccupati, dobbiamo accettare una logica che comporta un peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita. Il nostro governo, a questa retorica, ha sommato quella dei “furbetti del cartellino”, degli scansafatiche ed assenteisti: a loro si dedicano le prime pagine dei giornali, si “sbatte il mostro in prima pagina”, per poi poter attaccare con più facilità tutte e tutti.

Nell’intervista si va oltre; si parla infatti di uno sciopero condotto per mesi e si discute dunque delle strategie messe in campo dai lavoratori. Dei successi e dei limiti della lotta. Di quanto sia difficile portarla avanti nel tempo, convincere altri colleghi ad unirsi alle battaglie. Se un limite va riscontrato nelle risposte è l’assenza di una riflessione sulla necessità di un coinvolgimento attivo dei cittadini che usufruiscono dei servizi pubblici (scuole, ospedali, ecc.): crediamo infatti che le sperimentazioni più interessanti in Italia si diano laddove si riescono a creare fronti uniti all’interno delle comunità, tra lavoratori dei servizi pubblici e quei proletari che della distruzione della qualità di quegli stessi servizi ne risentono. Il che, tra l’altro, apre a delle riflessioni sul come organizzarsi, su quali strutture mettere in piedi, su come superare certi “irrigidimenti” sindacali…
Insomma, spunti che riteniamo certamente utili per alimentare un dibattito che qui da noi continua ad essere necessario come il pane…

 

Ci puoi descrivere il contesto politico-sociale nel quale è maturato il vostro sciopero?

La mobilitazione è partita in seguito alla decisione del Consiglio di Stato di Ginevra di anticipare la terza riforma dell'imposizione fiscale alle imprese1. Questa prevede di abbassare il livello delle tasse alle imprese multinazionali fino ad equipararlo a quello delle imprese locali, a circa il 13%. In altre parole, gli incentivi fiscali che l'esecutivo vuole donare ai padroni produrranno delle enormi perdite per le finanze pubbliche. Questi incentivi significano una perdita d'introiti tra i 400 e 700 milioni all'anno solo per il cantone di Ginevra. Per anticipare questa riforma, il Consiglio di Stato ha due opzioni: o aumentare le entrate, o diminuire le spese. Visto il contesto ideologico e politico, e la mancanza di rapporti di forza favorevoli, il Consiglio di Stato ha optato per la seconda via. Per raggiungere quest'obiettivo ha previsto l'introduzione di quattro misure strutturali estese su 3 anni, che mirano a diminuire del 5% il totale della massa salariale nel pubblico impiego. Si tratta della non sostituzione delle partenze per pensionamento, del passaggio dalle 40 alle 42 ore lavorative settimanali, della possibilità di poter licenziare più facilmente e dell'incoraggiamento al lavoro part-time.

A questo contesto s’aggiunge il ricorso pretestuoso – ormai sistematico quando si tratta d'applicare politiche d'austerità – a tutta una serie d'argomenti ideologici attorno al «debito insostenibile per le generazioni future». Per il Consiglio di Stato questo famoso debito rappresenta meno del 25% del PIL, vuol dire 13 miliardi di debito su un PIL di 48,6 miliardi nel 2014. A livello europeo, la media del debito pubblico in rapporto al PIL è del 90% circa. Siamo ben lontani da una situazione catastrofica.

Il nostro compito oggi è in primo luogo quello di definire precisamente l'origine di questo debito. Primo, negli ultimi 10 anni la diminuzione permanente delle tasse ha fatto perdere praticamente 1 miliardo d'entrate fiscali al cantone, cosa che ha aggravato ogni anno il debito. Secondo, il salvataggio della Banca Cantonale di Ginevra (BCG) è costato 2,3 miliardi di franchi alla collettività. Questa somma corrisponde a 11.000 franchi per famiglia. Poiché oggi la banca rigenera profitti, ci si potrebbe aspettare che la banca ripaghi quei soldi pubblici che le hanno permesso di salvarsi, cosa che consentirebbe d'alleggerire questo «peso insostenibile». Fino ad oggi però, ovviamente, la banca non ha rimborsato neanche un centesimo. Anzi, continua tranquillamente a remunerare gli azionisti. Terzo, il debito corrispondeva al 30% del PIL dieci anni fa mentre oggi è calato sensibilmente in rapporto a quest’ultimo. Mentre corrispondeva al doppio delle entrate fiscali, oggi rappresenta solo 1.5 volte le entrate dello Stato.

Siamo lontani da una situazione catastrofica ed appare lampante come il debito sia il risultato delle scelte politiche ed economiche della borghesia. Ma lo vogliono far pagare a noi lavoratrici e lavoratori – il mondo alla rovescia!

C’è un altro evento, ancora maggiore, legato al contesto che stiamo descrivendo: lo sciopero dei trasporti pubblici di Ginevra nel 2014. Si tratta di un conflitto che ha dimostrato come si possa spingere il governo cantonale ad un tavolo di trattative paralizzando totalmente la prima città mondiale del commercio delle materie prime. Questo sciopero ha considerevolmente marcato lo spirito della nostra mobilitazione. Non è un caso che le lavoratrici ed i lavoratori si siano riferiti continuamente a questo sciopero durante le assemblee.

Per concludere, devo rilevare alcuni aspetti caratteristici della situazione sociale del cantone: un tasso di disoccupazione più elevato rispetto alla media svizzera, l'alta pressione sui salari legata alla vicinanza con la Francia2, la presenza di grandi comuni suburbani nei quali è concentrata una certa precarietà, un accesso all'alloggio reso molto difficile dal «surriscaldamento immobiliare» che genera affitti altissimi, una popolazione e dei bisogni sociali che non smettono d'aumentare. Tutti elementi che provocano dei rapporti sociali di classe tesi, forse più tesi che altrove in Svizzera.

 

Ci puoi descrivere la dinamica del movimento di sciopero?

Lo sciopero è durato 7 giorni: il più lungo che la funzione pubblica ginevrina abbia mai visto. La mobilitazione si è estesa su due mesi. La scelta tattica fatta dall'assemblea degli scioperanti è consistita nell’interrompere lo sciopero dopo i primi tre giorni, di rilanciarlo successivamente ancora per tre giorni, per poi interromperlo nuovamente e riprenderlo il giorno prima delle trattative che hanno portato all'accordo di cui dirò. Questa tattica mirava a verificare la disponibilità a negoziare da parte del Consiglio di Stato ed a permettere alle colleghe e ai colleghi di riposarsi così da avere “un fiato più lungo”. A questi sette giorni di sciopero non consecutivi si devono aggiungere 10 manifestazioni, la più grande delle quali ha riunito 11.000 persone! Malgrado tutto, la posizione del Consiglio di Stato è rimasta molto dura.

Sul piano della mobilitazione, il settore dell'insegnamento pubblico ha iniziato molto forte. Durante le assemblee, nelle manifestazioni e, più in generale, in termini di proporzione di lavoratrici e lavoratori in sciopero, questo settore ha dato inizialmente una spinta alla mobilitazione molto importante. Pian piano però, la loro partecipazione si è ridotta.

Il settore “sociale” (per esempio l'assistenza a giovani con problemi familiari, l'assistenza a persone con handicap) ha conosciuto una mobilitazione storica, totalmente inaspettata. Mai, a memoria delle operatrici e degli operatori sociali, c’è stato un impegno così grande. Per due mesi, durante la mobilitazione, ho occupato un posto di supplenza. Perciò non è stato facile militare e partecipare allo sciopero. Tuttavia, occorre dire che la direzione dell’istituto dove lavoravo ha sostenuto il movimento. Senza essere ingenuo riguardo all’eventualità di un loro sostegno a lungo termine, questo fatto traduce comunque le inquietudini che animavano le gerarchie superiori degli istituti, poiché anche loro si trovano spesso sotto la costante pressione di dover fare di più con sempre meno mezzi finanziari. Per contro, certe direzioni hanno dichiarato illegale lo sciopero e hanno perfino tentato d'impedire o limitare l'applicazione del diritto allo sciopero. Questo ad esempio è stato il caso in una struttura per persone con handicap. In reazione alle pressioni avvenute in questo istituto, l'assemblea del settore sociale ha chiamato a raduno i lavoratori e le lavoratrici davanti agli uffici della direzione: ben 80 lavoratrici e lavoratori erano presenti, cosa che ha permesso di intavolare una discussione. Ma soprattutto – e questo è l'aspetto centrale – questa dimostrazione di forza ha prodotto come risultato che il giorno dopo 10 lavoratori e lavoratrici di questo istituto fossero presenti all'assemblea generale. Non esiste miglior esempio di mobilitazione riuscita: non solo far cedere la direzione, ma anche mobilitare nuove lavoratrici e lavoratori.
Il settore sociale ha conosciuto forti mutamenti durante la mobilitazione. Nella prima assemblea generale si contavano 40 lavoratori, mentre un mese dopo eravamo 400 operatrici e operatori sociali e tutti gli istituti e i servizi sociali del cantone erano rappresentati. Se durante le prime assemblee della funzione pubblica solamente alcune braccia si alzavano quando si chiamavano all'appello i differenti settori, un mese dopo eravamo tantissimi, non riuscivamo neanche più a contare.

 

Ci puoi spiegare meglio l'aspetto strettamente politico dello sciopero?

L'aspetto interessante dei movimenti nella funzione pubblica, da noi come altrove, è il fatto che traducono in maniera chiara l'opposizione di classe e le contraddizioni che esistono all'interno della borghesia. Da una parte, quest'ultima ha bisogno di una funzione pubblica efficiente che catalizzi la conflittualità sociale. Dall'altra parte, ha però l'orrore di una funzione pubblica che possa gravare sui suoi profitti, per esempio tramite le tasse. La borghesia tenta di risolvere in parte questa contraddizione «installando» aspetti del settore privato nella funzione pubblica. L'insegnamento è un esempio eccellente: diminuendo l'investimento nell'insegnamento pubblico e incoraggiando finanziariamente lo sviluppo delle scuole private, il sistema borghese prende due piccioni con una fava: favorisce l’abbassamento della qualità dell'insegnamento pubblico e nello stesso tempo ne delegittima l’esistenza stessa. In tal modo, il settore privato viene pian pianino visto come il solo a saper offrire delle prestazioni di qualità – ma ovviamente appannaggio solo di coloro che possono permettersi una scuola privata. Le conseguenze sono evidenti: scuole private per i benestanti, un sistema pubblico in rovina per tutti gli altri.

Peraltro, si può dire che in ambito educativo la borghesia ha interesse a preservare una parte della funzione pubblica al fine di formare quella manodopera – per dirla in maniera caricaturale – utile e necessaria a riempire le sue fabbriche e i suoi siti industriali di punta per produrre merci e realizzare benefici. In poche parole, garantire una formazione iniziale assicura la possibilità di avere a disposizione future lavoratrici e futuri lavoratori.

La logica è simile nel settore sociale, testimonianza ne è l’appalto di una parte del lavoro sociale ad un settore che si può denominare «lavoro sociale privato», che ruota in particolare attorno ad istituzioni che producono beni e servizi e che tentano d’estrarre utili. Questo avviene ricorrendo ad un tipo di manodopera che il mercato non riesce ad assorbire perché considerata poco produttiva e che può essere retribuita al di sotto dei salari usuali. E' questa logica di privatizzazione rampante che opera nelle riforme della funzione pubblica: uno stato snello, che cede i compiti ai privati, con il risultato di avere delle prestazioni di qualità riservate solo a coloro che hanno i mezzi per pagarsele.

La posta in gioco attorno all'esistenza della funzione pubblica allora non è economica, ma chiaramente politica. Questo è uno dei messaggi principali che dobbiamo far passare. Non è tanto piacevole per le operatrici e gli operatori sociali prendere coscienza del posto che occupano nell'intersezione dei rapporti sociali di classe (e anche di «razza» e di sesso), ma è l'unico modo per ridefinire in maniera chiara e radicale il senso del nostro lavoro.

Chiaro, è un po’ caricaturale ridurre l'impegno delle operatrici e degli operatori sociali alla funzione di «normalizzatore» e di «ammortizzatore» sociale. Il loro impegno quotidiano permette, in infinite piccole situazioni individuali, di produrre maggior benessere, cura, sostegno ed accompagnamento. Quel che critico è dunque la logica d’insieme. Il mio rispetto è totale di fronte all'impegno delle lavoratrici e dei lavoratori della funzione pubblica, che si sforzano quotidianamente di fare il loro lavoro con coscienza e professionalità, preoccupandosi sempre di trasmettere delle conoscenze, migliorare le situazioni individuali, curare i malati – e tutto questo molto spesso sotto la pressione dell'urgenza.

Spesso, nelle discussioni con i miei colleghi, usavo un esempio per mostrare quanto siano divergenti gli interessi tra le classi sociali: nel momento forte di lotta del movimento della funzione pubblica, mentre tentavamo, con difficoltà, di spiegare alla popolazione la mancanza di mezzi finanziari adeguati per il nostro settore, i giornali riferivano dell’acquisto a Ginevra, da parte di un miliardario, del gioiello più caro del mondo: 48 milioni di franchi! 48 milioni è il budget di una delle più grandi istituzioni educative del cantone. 48 milioni di franchi corrispondono a 400 posti di lavoro, 20 centri d'accoglienza per famiglie e d'accompagnamento sociale. Non esiste esempio migliore per mostrare le contraddizioni e l’esistenza di opposti interessi di classe. Loro vogliono comprare i gioielli, noi vogliamo salvaguardare e migliorare le prestazioni per tutto il popolo e salvaguardare la nostra dignità di lavoratori.

Chiaro, nel settore sociale non ci possiamo accontentare di chiedere ulteriori mezzi finanziari, anche se sono legittimi e urgenti. Bisogna riflette sulle potenzialità di un tipo di lavoro, il lavoro sociale appunto, che si colloca strategicamente in quella che chiamiamo «la posizione contraddittoria». Il lavoro sociale agisce come uno strumento di controllo di una classe sull'altra. Ma allo stesso tempo può scalzare il capitalismo e la società divisa in classi preparando le condizioni per rovesciare i rapporti sociali di classe. Per far questo però è necessario innanzitutto far prendere coscienza a tutti e tutte della nostra posizione di lavoratrici e lavoratori immersi nei rapporti sociali. Poi bisogna creare le condizioni del cambiamento costruendo la solidarietà tra i diversi ambiti di lavoro e tra le lavoratrici/i lavoratori e gli utenti. E' un lavoro difficile e a lungo termine, ma necessario.

 

Quali strutture vi siete dati/e per condurre questo sciopero?

Si può dire che prima di tutto erano le assemblee della funzione pubblica che decidevano del percorso da dare al movimento. Il “comitato unitario” rappresentava di fatto le organizzazioni sindacali e le associazioni del personale di tutti i settori. Il suo compito era di comunicare le decisioni al Consiglio di Stato... e viceversa.

Generalmente, ho avuto l'impressione che la democrazia sindacale sia stata rispettata: in ogni assemblea ognuno aveva l'opportunità di prendere la parola

Vi è un altro elemento interessante che chiarisce la dinamica: il quinto giorno, e contro tutte le aspettative, l'assemblea ha chiaramente deciso di continuare lo sciopero per un altro giorno ancora. Secondo me questo dimostra due cose: da una parte un impegno forte della base che si traduceva in assemblee strapiene con accese discussioni, così come in proposte d'azioni concrete poi effettivamente compiute: dal volantinaggio alla cittadinanza ed agli altri colleghi e colleghe alle azioni massicce per fare pressione sul Consiglio di Stato ecc. Dall'altra parte, per la maggior parte dei militanti questo movimento ha rappresentato la loro prima esperienza di lotta. Chiaramente si può dire che si è vista una certa ingenuità. Alcune volte avevo l'impressione che le lavoratrici ed i lavoratori alla prima esperienza non capissero sempre di aver di fronte a loro dei nemici che difendevano delle posizioni di classe, ma solo dei soggetti un po’ «cattivi» coi quali bastava discutere e ai quali bastava portare i giusti argomenti per convincerli.

 

Che bilancio fai di questo movimento di sciopero?

Io parto dal principio che siamo di fronte a una vittoria, ma il bilancio è provvisorio perché la battaglia non è ancora finita. Certamente, il protocollo d'accordo non corrisponde alle nostre rivendicazioni, maabbiamo vinto sul terreno della solidarietà che si è creata tra le lavoratrici e i lavoratori: Abbiamo accumulato una forza inestimabile che ci sarà utile nei prossimi anni durante i quali i piani d'austerità si accumuleranno. All'interno dei settori, ma anche tra i servizi della sanità, del sociale, dell'insegnamento, le lavoratrici ed i lavoratori si sono incontrati, hanno militato e manifestato, hanno avuto dibattiti sul senso delle loro attività professionali, sulla società e su quel che deve cambiare. Per alcune/i colleghe e colleghi si è trattato della prima volta che passavano così tanto tempo insieme a riflettere, benché si lavori negli stessi servizi. Il loro impegno è stato molto determinato. Ci sono state delle assemblee che liberavano energie che potevano spostare montagne.

Sul piano formale e oggettivo devo comunque dire che il bilancio resta magro. Il protocollo d'accordo non corrisponde a quello che volevamo. In primo luogo, il Consiglio di Stato aveva promesso di discutere con tutte le formazioni politiche del parlamento cantonale per mettere a punto un progetto di budget che considerasse le rivendicazioni del movimento. In cambio però avremmo dovuto rinunciare alla nostra annualità che non è poco in termini di reddito e di pensioni future. Ma naturalmente il Consiglio di Stato non ha mai iniziato questo confronto. Nelle trattative che hanno preceduto la firma dell'accordo, il Consiglio di Stato ha fatto di tutto per far sparire la parola «trattative» dal protocollo. Un bell’esempio dello spirito del Consiglio di Stato, di quella sua posizione dogmatica, intransigente e totalitaria tenuta durante tutta la mobilitazione.

L'aspetto positivo dell'accordo è che ci lascia alcuni mesi per ri-mobilitare le colleghe ed i colleghi per il seguito della battaglia. Per il momento, e solo grazie alla mobilitazione, le misure strutturali sono sospese, il tempo delle trattative è stato prolungato fino al 21 marzo. Invece – e questo si sapeva – il Consiglio di Stato passerà all'attacco. In alcuni dipartimenti e istituti sociali ha già dato l'ordine di muoversi sulla base di un budget che non sarà aumentato, violando così il protocollo d'accordo che aveva firmato.

In ogni caso non dobbiamo illuderci, il Consiglio di Stato thatcheriano non mollerà niente. Ha firmato l'accordo perché voleva la calma nelle strade durante le vacanze e le compere di natale. E' stato tra l'altro messo sotto pressione dai commercianti delle strade chic, il che dimostra se ce ne fosse bisogno da quale parte si posizioni, quella delle grandi imprese e della borghesia locale.

 

Cosa farete fino al 21 marzo e ci si può aspettare un rilancio del movimento sociale in quel momento?

Dall'inizio della mobilitazione la mia posizione non è variata di un millimetro. La priorità deve e dovrà essere la mobilitazione delle colleghe e dei colleghi. A più riprese siamo andati dalle lavoratrici e dai lavoratori per discutere con loro e per incoraggiare coloro che esitavano a partecipare al movimento, e questo non solo nel settore sociale. Bisogna proseguire in questa direzione e moltiplicare questo tipo d'intervento.

Perché niente ci assicura che le lavoratrici ed i lavoratori riprenderanno lo sciopero nel caso le trattative non avranno esito positivo. E poi si deve dare una prospettiva di lungo termine a questo movimento. Gli attacchi contro la funzione pubblica e contro il settore sociale sono stati, sono e resteranno costanti. Perciò bisogna rafforzare la rete di mobilitazione. Nel settore sociale stiamo scrivendo un manifesto che esplicita, attraverso esempi concreti, i differenti bisogni in tutto il settore.

Questo manifesto è una risposta al Consiglio di Stato che pensava di prenderci in giro lanciando una «consultazione» online delle lavoratrici e dei lavoratori per farli partecipare allo sviluppo di idee per risparmiare fondi. Anche in questo caso si trattava di una violazione dell'accordo firmato e così questo tentativo è stato un fallimento, anche perché i lavoratori e le lavoratrici non si sono fatti/e abbindolare: Il Consiglio di Stato sta preparando degli incentivi fiscali di quasi un miliardo di franchi per le imprese e chiede allo stesso tempo alle lavoratrici ed ai lavoratori di valutare se in questo o quell'altro servizio si possa rinunciare alla carta igienica.

Questo esempio è un po’ caricaturale, ma esemplifica la logica. Immaginiamo una situazione nella quale si vuole ridurre della metà i mezzi finanziari (certamente un sogno per certi difensori dell'austerity): questo rappresenterebbe circa 200 posti di lavoro in meno, 10 strutture educative chiuse, centinaia e migliaia di ragazze e ragazzi ricollocati in famiglie disfunzionali. Un costo sociale enorme e catastrofico. E per cosa? Per 24 milioni di risparmi. Che cosa sono questi spiccioli in confronto ai miliardi regalati ai più ricchi? Perciò stiamo lavorando ad un manifesto che spieghi come non dobbiamo rivendicare pochi spiccioli in più per il nostro lavoro ma, al contrario, che è necessario lottare per migliori condizioni di lavoro e per avere i mezzi adeguati per svolgerlo. Tutto sommato, dobbiamo dimostrare che i bisogni della popolazione sono legittimi, giusti e necessari, mentre non lo sono i privilegi dei grandi patrimoni.

Ma come dicevo, non ci si può fermare qui, perché siamo di fronte in primo luogo ad una questione sociale fondamentale. Penso che dobbiamo dunque riflettere, nei servizi sociali, su quale tipo di lavoro vogliamo sviluppare per il futuro. Ci dobbiamo accontentare d'ammorbidire le disuguaglianze e la precarietà? O dobbiamo riflettere su come il lavoro sociale possa diventare uno strumento d'emancipazione per le lavoratrici, per i lavoratori e per gli utenti di fronte ad un sistema incapace di ridurre le disuguaglianze? Sono queste le domande alle quali dobbiamo trovare delle risposte. Detto in altre parole, il lavoro sociale deve diventare politico e porre la difesa del bene comune come filo rosso del suo impegno. Il manifesto ci permetterà di andare verso le nostre colleghe e colleghi con lo scopo di mobilitarli. Perché il seguito della mobilitazione si costruisce là dove il confronto con le politiche dell'austerità è più accentuato: si tratta di un confronto che investe le nostre colleghe lavoratrici, i nostri colleghi lavoratori e gli utenti. E' verso di loro che deve essere rivolta la nostra pratica, una pratica che mira alla costruzione di un reale movimento sociale che sia in grado di opporsi in anticipo a quelle politiche d'austerità destinate a prolungarsi ben oltre i prossimi mesi.


(1) La riforma dell’imposizione sulle imprese vuole rafforzare l’attrattiva della piazza fiscale svizzera. In particolare vengono abbassate le tasse alle società holding, di domicilio e miste. La riforma intende eliminare le differenze d’imposizione applicate dai Cantoni ai profitti ottenuti dalle imprese estere rispetto a quelli dalle imprese nazionali. In sintesi, la riforma prevede l'abbassamento dell'imposizione con l'argomento di salvaguardia dei posti di lavoro e lo sviluppo della ricerca.
(2) Sulle circa 290.000 persone attive nel cantone di Ginevra, più o meno un quarto, cioè circa 75.000 persone, sono dei frontalieri francesi. Una gran parte di essi occupa posti precari e remunerati al di sotto della media. I padroni utilizzano questa mano d'opera per far pressione sui salari. La destra populista e xenofoba usa l'argomento della pressione salariale provocata dalla presenza di questo tipo di mano d'opera sul mercato di lavoro per intensificare gli attacchi ai diritti degli immigrati e dei lavoratori in generale. Una simile situazione la si può osservare nel Canton Ticino con i circa 40.000 lavoratori frontalieri italiani e la Lega dei Ticinesi.

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