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Afghanistan

Quando l’ipocrisia diventa verità.

L’ipocrisia è come un velo che copre la pagina della verità.

Talvolta è leggero, trasparente e lascia intravedere facilmente quello che c’è sotto, altre volte è invece spesso, opaco e copre completamente la pagina, nascondendo tutto. Diventa esso stesso verità, una verità che tutti pensano di vedere perché è quello che appare, quello che è evidente, che tutti vedono e che tutti dicono perché guardano solo la superficie della pagina, non vedono quello che c’è sotto.

E’ il mondo dell’apparenza, delle convenzioni, delle idee standard, quelle che si comprano al supermercato televisivo, sui giornali padronali, nei salotti esclusivi. Chi riesce a guardare sotto il velo rischia l’emarginazione, l’allontanamento, l’offesa di essere considerato pazzo, visionario, comunista ed anche terrorista.

Non si può andare contro il sentire comune, il parlare comune, lo schieramento comune. Non importa se si hanno idee, fatti, documenti, ragionamenti. Chi non segue la linea è un reietto, un appestato, un pericolo per il paese e per la democrazia.

E così, giorno dopo giorno, sprofondiamo nell’ipocrisia decadente del nostro mondo dorato e privilegiato. Vediamo le facce sorridenti delle belle e giovani casalinghe televisive che cantano pulendo la casa e non chiedono di far carriera, accudiscono senza protestare figli fangosi e mariti frettolosi.

Vediamo le attricette gonfiate e firmate alle feste nei luoghi più alla moda del nostro paese, anche loro sempre sorridenti di denti candidi e di vestiti alla moda che brindano con lo champagne, sembrano il ritratto della salute e della felicità e ci stupiamo quando sentiamo che hanno tentato il suicidio o sono preda di alcol e droga.

Anche la nostra politica non sfugge a questo modo di essere e le idee si formano soprattutto per schieramento. Ogni presa di posizione del Governo, qualunque essa sia, anche la più evidentemente balorda, viene subito appoggiata e difesa da chi si riconosce in quella parte politica. Lo stesso accade per l’opposizione che raramente loda un atteggiamento positivo, una legge appropriata concedendo il suo assenso sia pure con la richiesta di qualche modifica migliorativa.

E’ come se i cittadini italiani avessero abdicato alla facoltà di ragionare con la propria testa, di pensare con il proprio cervello e di avere incaricato altri di farlo per loro, forse perchè più comodo e non si deve perdere tanto tempo a leggere, documentarsi, informarsi: basta sentire il telegiornale giusto durante l’ora di cena!

Non solo si appropriano delle idee altrui, ma queste diventano talmente parte di se da difenderle con la tenacia, l’entusiasmo, la passione e la rabbia con cui si difendono di solito le convinzioni più profonde, quei concetti che abitano la parte più intima della nostra anima, del nostro essere.

L’acrimonia con cui queste idee vengono difese si vedono nei pubblici dibattiti dove raramente ci sono incontri pacifici e chiarificatori, più facilmente scontri e nessuno ne esce con il minimo cambiamento se non di idea almeno di prospettiva.

Una discussione pacifica e costruttiva con l’esposizione delle proprie idee e con il rispetto di quelle altrui lascia spesso il passo a prese di posizione prepotenti, con qualche accenno di offesa, o comunque parole dure nei confronti dell’altro che da avversario diventa subito nemico.

Nei giorni passati il dibattito è stata l’interpretazione del significato da dare alla morte dei nostri compatrioti in missione in Afghanistan. Alcuni li hanno definiti eroi, altri li hanno visti come semplici lavoratori, uomini che hanno scelto la professione di soldato e quindi persone consapevoli di cosa gli attendeva, a cosa potevano andare incontro. Il discorso si è poi spostato anche sul significato della loro morte e sul paragone con i tanti, troppi morti sul lavoro, che nel nostro paese raggiungono cifre intollerabili.

Non ho dubbi sulla passione che questi militari hanno per il loro lavoro. Sicuramente credono in quello che fanno, credono nella loro missione anche se sanno perfettamente di andare ad una guerra. Si possono definire come ci pare e possono avere anche compiti di pace, ma rimangono truppe armate occupanti un altro paese e quindi sottoposte alle offese di chi li considera invasori.

Sono tutti volontari quindi hanno scelto liberamente di andare in queste zone pericolose, sono anche ben retribuiti ed è un elemento non secondario nella scelta di andare, specie in ragazzi che vengono dal sud dove le condizioni economiche delle famiglie sono in generale più deboli e i soldi servono magari per metter su famiglia.

Molti quindi sono gli elementi da valutare quando si esprime un giudizio per non cadere nell’ipocrisia e nella superficialità. Non parlo del dolore per le famiglie dei militari, per le mogli vedove, i figli orfani e le povere madri di questi disgraziati che ci vede tutti uniti in un abbraccio simbolico di sentita partecipazione, ma al tempo stesso bisognerebbe però uscire dalla ipocrisia che circonda questi fatti e tenere una posizione prudente, forse quella più vicina alla verità.

Forse non sono eroi (che sono altra cosa), ma nemmeno semplici lavoratori caduti sul lavoro e tanto meno nemici invasori uccisi dalla resistenza afghana.

I motivi dell’intervento internazionale in questo disgraziato paese sono tutt’altro che nobili e non sono certo le donne col burka, e in parte nemmeno i talebani, ma al di fuori dell’ipocrisia prendono il nome di interessi internazionali oppio, eroina, gas, petrolio, Unocal. Questi ragazzi però non ne hanno responsabilità. Loro sono in missione, una missione pericolosa in cui è compreso l’attacco ed anche la morte.

Se accade gli siamo tutti vicini, siamo vicini alle famiglie e al loro dolore, ma l’uso che ne hanno fatto i media appare eccessivo. In alcune circostanze i servizi televisivi hanno rasentato addirittura la strumentalizzazione dei piccoli orfani sulle bare dei papà.

Ecco le voci che si sono levate contro, non contro i militari che hanno compiuto il loro dovere fino al sacrificio, ma contro la eccessiva spettacolarizzazione di un dolore.

Eccessivo a prescindere e segno di cattiva televisione ma enormemente dissonante se paragonato al silenzio colpevole sulle tanti morti bianche, spesso solo affidate a dei semplici numeri, a delle asettiche statistiche, e circondate di tante chiacchiere ma di ben pochi fatti concreti.

 

 

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