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Adesso che lo dice un premio nobel (Prima parte)

Adesso che lo dice Krugman, si può essere sicuri che molti riprenderanno la tesi che il sottoscritto ha sostenuto sin da subito dopo l’inizio di questa crisi. In particolare, "sbaveranno" per il piacere tutti i banaloni della "sinistra" che credono di essere progressisti quando si allineano al keynesismo (se sia proprio il pensiero del grande economista inglese lo discutano i suoi seguaci, personalmente ne faccio volentieri a meno). Questa crisi assomiglierà alla lunga depressione di fine XIX secolo piuttosto che alla "molto più terribile" grande depressione iniziata il 1929. Questo il succo, molto succinto ma non alterato, del premio Nobel. 

Adesso che lo dice un premio nobel (Prima parte)

Lasciamo perdere il fatto che ricevere questo premio nel 2008 non è poi un gran titolo di merito; ormai da molto tempo esso è ampiamente squalificato. Non mi sogno però di sostenere che Krugman non sia un economista preparato e intelligente, cosa non poi tanto frequente in quel ramo sedicente “scientifico” da ormai alcuni decenni a questa parte. Il problema, appunto, è che è un economista. Vediamo un po’ che cosa si può scrivere sulle sue affermazioni.
 
Intanto non è lecito alcun paragone (“molto più terribile”) tra la “lunga” e la “grande” depressione. Alla fine del XIX secolo la depressione (anche indicata come stagnazione, e che viene solitamente datata 1873-96) è l’epoca in cui si accentua e prende grande slancio la “seconda rivoluzione industriale” con l’apertura di settori produttivi assolutamente nuovi; oserei parlare di nuove frontiere o orizzonti legati ad un ben più incisivo e stretto intreccio tra scienza, tecnologia e produzione. Si aprono nuove frontiere nel campo della produttività del lavoro con la riorganizzazione dei processi della sua estrinsecazione, pur se l’introduzione più ampia del taylorismo-fordismo (a partire dagli Usa) è appena successiva alla depressione (ma inizia già in essa). Tutto ciò ha conseguenze rilevantissime nella riclassificazione della stratificazione e segmentazione sociali.
 
Viene a quell’epoca in evidenza, fra l’altro, il più radicale passaggio dalla vecchia impresa – quasi identificata con la fabbrica (l’opificio di trasformazione dei prodotti) – alla nuova che s’imporrà largamente a partire dagli Usa, diventando nel giro di qualche decennio la vera forma dell’unità produttiva capitalistica. L’affermarsi di questa nuova impresa è stata vissuta, in particolare dai marxisti, quale semplice passaggio dalla concorrenza al monopolio (in realtà oligopolio, ma non sottilizziamo). La grande dimensione d’impresa, confusa per lo più appunto con quella della fabbrica, è stata da una parte trattata come processo di espansione della classe operaia; dall’altra come centralizzazione dei capitali. Anche di questo processo, su cui non posso qui soffermarmi, Marx aveva una visione di controllo e potere nella società. Sbagliò non prendendo attentamente in considerazione l’aspetto della complessificazione degli strati (in verticale) e dei segmenti (in orizzontale) sociali. Tuttavia, gli sclerotici marxisti, del resto ampiamente seguiti da molti economisti e sociologi radical, si sono fissati soltanto sulla centralizzazione della proprietà, sul possesso di pacchetti di maggioranza: prima assoluta, poi relativa, quella che comunque attribuisce il controllo della proprietà azionaria dell’intera impresa. Inoltre, come già notato, ci si limitò al mutamento delle “forme di mercato” (tali essendo concorrenza e monopolio) e non alle trasformazioni dei rapporti tra gruppi sociali.
 
I processi appena considerati condurranno poi nel tempo alla perdita relativa di rilevanza della “classe” operaia, che sia le correnti riformiste sia quelle rivoluzionarie del movimento operaio avevano ormai ridotto alle mansioni esecutive (alle “tute blu”), perdendo del tutto la grande acquisizione di Marx secondo cui chi avrebbe emancipato la società in direzione del socialismo e comunismo sarebbe stato l’operaio combinato o lavoratore collettivo, in quanto ricomposizione, non senza frizioni e contraddizioni, dei ruoli direttivi ed esecutivi nel processo produttivo.
Marx aveva errato nell’individuare questa tendenza dinamica, che supponeva intrinseca allo sviluppo capitalistico. Quest’errore di previsione andava semmai corretto, non certo messo da parte per inneggiare ad una classe operaia fatta di meri esecutori (privi “delle potenze mentali della produzione” sussunte sotto il capitale; detto da Marx, non da me), preparando così la lunga epoca dell’esaurimento e finale sconfitta del sedicente “movimento operaio”. Molte volte ho ormai scritto su questi argomenti, e non vi torno.
 
Qui mi premeva mettere in luce le radicali trasformazioni avvenute nella “lunga depressione” di fine ‘800. Nulla di così “epocale” si verificò nella “molto più terribile” (secondo Krugman) “grande depressione” del 1929. Solo un economista, che disputa tra i neoclassici e i neokeynesiani (e si mette dalla parte di questi ultimi), può essere così miope (e questo dimostra, fra l’altro, che i premi Nobel sono assegnati da tempo a meri “tecnici”, non a personaggi con una solida visione dei processi storico-sociali). Il bello è che Krugman ammette (o almeno mi sembra, perché non è poi così chiaro) che comunque non si esce dalla depressione del 1929 nel 1933 (anno di lancio del “mitico” New Deal) così come si afferma solitamente (in effetti si parla sempre di crisi 1929-33). L’economia ebbe in realtà piccoli sbalzi e nel ’37 fu di nuovo in forte perdita di velocità; con il ritardo normale nel corso di una crisi, la punta della disoccupazione negli Stati Uniti (la più alta dopo quella del 1932) si ebbe nel 1939.
 
Poiché, come già rilevato, nessuna trasformazione socio-produttiva dell’importanza di quelle di fine ‘800 (e primissimo ‘900) si era verificata, il “keynesiano” s’immagina che il merito spetti all’aver supplito, mediante spesa pubblica, alla carenza della domanda complessiva “privata” in paesi “opulenti” (ad alto sviluppo capitalistico e con elevata propensione - marginale - al risparmio). Un cervello “più fino” si rende però conto che, non essendo usciti dalla crisi nel 1933, il vero merito dello “scossone” positivo subito dall’economia capitalistica va ascritto non tanto al New Deal (semplice “pannicello caldo” utilizzato dal ’33 al ‘37) quanto alla seconda guerra mondiale (così come il merito dell’analogo superamento dell’altra “grande depressione” del 1907 era spettato alla prima guerra mondiale; questo è un “piccolo fatto” sempre messo tra parentesi dagli economisti). Ovviamente, il suddetto “scossone” positivo avviene subito negli Usa (che non sono teatro della guerra) e, dopo aver assorbito e risanato le devastazioni della stessa, nel resto del mondo capitalistico.
 
Il “cervello più fino” di cui sopra, quando è un economista keynesiano (pur se magari divenuto marxista alla guisa di uno Sweezy), che cosa pensa subito dopo avere “scoperto” che la crisi è risolta dalla guerra? La spesa per gli armamenti è il toccasana. Vengono prodotti beni che non alimentano l’offerta nel mercato perché inviati “al fronte” e presto distrutti o resi obsoleti, ecc. Generano però reddito che viene speso mettendo in moto il moltiplicatore dello stesso, e via discorrendo. Quando la guerra è finita, quando i paesi distrutti sono stati per l’essenziale ricostruiti, come alimentare ancora questa domanda? “Elementare Watson” risponde il keynesiano divenuto anche un po’ (o molto) “di sinistra”; come minimo “progressista” e “politicamente corretto”. Si deve dare slancio al Welfare State, meglio detto “Stato sociale” più che del benessere (quest’ultimo sa un po’ di spese superflue, di mero godimento di una vita poco frugale; mentre lo Stato sociale... orsù, suvvia, vivaddio, volete mettere?!). Quindi via con le pensioni (“salario differito”) e con la sanità pubblica (“salario indiretto”). Se poi si va in pensione dopo 15 anni, sei mesi ecc. o se la sanità è uno spreco dietro l’altro, meglio ancora; si ha reddito da spendere e questo traina l’economia. La gran parte della spesa “pubblica” va in stipendi per gli impiegati, mentre poco resta per assicurare servizi minimamente decenti alla “collettività”? Sempre meglio; l’importante è assicurare che tutti abbiano da spendere: semmai bisogna convincerli a non risparmiare, ma ad acquistare il più possibile: “il vizio privato assicura il bene collettivo” e viceversa.
 
Tuttavia, il dopoguerra viene caratterizzato per decenni da sviluppi e brevi crisi (dette recessioni per distinguerle dalle “grandi depressioni” tipo ’29); le politiche economiche si limitano al ben noto stop and go, all’alternanza di misure contrapposte di allargamento e restringimento dei “cordoni della borsa” da parte del sistema bancario e dell’apparato pubblico. Un alternarsi di inflazione (soprattutto dei prezzi) e di deflazione (soprattutto della produzione “reale”). Nel complesso, però, prevale nettamente l’inflazione dei prezzi e s’ingigantisce il debito pubblico (fenomeno particolarmente evidente nel nostro paese, ma non solo italiano). Alla fine si ha la reazione neoclassica, neoliberista: contenimento dell’inflazione (obiettivo fallito a lungo fino ai prodromi di una nuova vera depressione) e del debito pubblico, anch’esso obiettivo non proprio ben riuscito e comunque con larghi effetti di deflazione (ammesso che questa sia dovuta principalmente alle nuove politiche economiche).
 
Ecco di nuovo strepitare i keynesiani che vogliono il ritorno all’antico, in una situazione mondiale totalmente mutata con la sparizione del “campo socialista” e gli Usa non più centro predominante globale. Intanto, come sempre avviene da metà ‘800 almeno, la ricchezza “fittizia” (finanziaria, molto effettiva finché dura) si accresce, e si accentra, assai più rapidamente di quella reale. Si profila il patatrac, che si cerca di dimenticare per oltre un anno. Infine il bubbone scoppia nel 2008 e allora tutti si mettono ad ululare che è la peggiore crisi dopo quella del ’29, qualcuno anzi sostiene che è come quella, in pochi (quelli del continuo sognare il “crollo del capitalismo”) che è peggiore e, ovviamente, finale. Sui giornali si offendono gli economisti che non prevedono nulla, che sono molto peggiori dei meteorologi (unica affermazione vera e sensata). Naturalmente, questi ignorantoni, accusati di essere incapaci di vedere al di là del proprio naso, continuano ad essere ospitati, pagati a peso d’oro, sui giornali e in TV, e pontificano senza cessa. Pure alcuni “critici critici”, perfino degli (auto)sedicenti “marxisti”, vengono recuperati e conoscono il loro periodo di gloria.
 
Nel 2009 tutto sembra acquietarsi; la situazione è grave ma non disperata, l’uscita dalla crisi si avvicina. Ci sono i soliti brontoloni, ma sono quelli dell’Apocalisse “nella manica” con la catastrofe imminente da sempre, dall’inizio dei tempi: catastrofe economica, ambientale, del convivere sociale, delle psicologie individuali, di tutto insomma. Non badarli è lecito, anzi doveroso, perché sono poveri malati di mente e andrebbero curati in luoghi appositi. Arriva comunque l’ulteriore botta del 2010 che dura tuttora, pur se si ricomincia – da parte di alcuni – a parlare di crisi in via di risoluzione. Nello stesso tempo, si riattizza la solfa prima accennata: gli economisti non ci azzeccano mai, ma si fanno scrivere e pontificare come e più di prima, ecc. ecc.
 
Finalmente arriva qualcuno che avverte: questa non è una crisi come le altre, ma un mutamento d’epoca. Ohibò, finalmente delle persone sensate. “Manco pe’ gnente”; il mutamento d’epoca sarebbe la crisi di un mondo senza morale, che deve tornare ai sani principi dell’insegnamento cattolico, della Chiesa (e perché non del Corano o di qualsiasi altra religione? Quanto a sfoggio d’etica, non ce n’è una che resti indietro rispetto alle altre). E si arriva allora ad un Krugman (e qualche altro, ma pochissimi) che avanza un’ipotesi senz’altro più acuta delle altre: questa crisi assomiglia alla depressione o stagnazione (non priva di balzi di crescita alternati a tonfi, con un trend sostanzialmente “orizzontale”) di fine ottocento (quasi un quarto di secolo, un’intera generazione). Non vi è dubbio che ci fa un figurone, è il classico monocolo nella terra dei ciechi. C’è però un “ma”, una piccola dimenticanza, tipica “da economista”.
 
 
Continua...
 
 

Commenti all'articolo

  • Di pv21 (---.---.---.148) 6 luglio 2010 19:25

    Gli economisti sono un pò come certi paladini del global warming: non disdegnano i Peccati di Presunzione. Più sommessamente, questa crisi grava da mesi sul nostro paese come SE fosse STAGNAZIONE ...

  • Di Mr. Hubbert (---.---.---.69) 6 luglio 2010 23:14

    Questi economisti sono una razza inutile. sopratutto gli accademici.
    Dicono banalita’, tipo che per superare la crisi bisogna crescere cosa che, se solo avessero studiato una di materia seria come la fisica che non permette però di staccare assegni milionari, si renderebbero conto della assurdita’ di tale affermazione.
    L’andamento dell’economia odierna fu gia’ anticipato da Hubbert negli anni 50 senza essere un economista, ma uno scienziato nel campo della geologia specializzato in carbone e petrolio.
    Previsse il picco di estrazione del petrolio nei fields americani verificatosi negli anni 70, il successo delle sue teorie portarono alla previsione del picco per Russia e UK.
    Adesso ci troviamo nella parte flat del grafico di estrazione mondiale che prevede un andamento dell’economia di continue crisi seguite a piccole riprese, questo per tutto il periodo di stazionamento del mondo in questa parte di grafico.
    Dopo il 2015 il grafico comincera’ a discendere rapidamente, innescando una crisi sistematica senza ritorno perchè, se ancora qualcuno non l’ha capito, l’economia non si regge ne sui finanzieri creativi, ne sulle banche, ne sulle teorie degli economisti, ne sulle politiche monetarie, ma si regge solo ed esclusivamente sulla quantita’ di petrolio disponibile, che a sua volta determina la quantita’ di energia disponibile, il cibo disponibile, i farmaci disponibili, la tecnologia disponibile, i trasporti disponibili e quindi l’interscambio di merci da paese a paese...gli economisti dovrebbero prima di tutto studiarsi un po’ di fisica elementare e magari un po’ di geologia, giusto per sapere che l’economia non vuol dire far girare soldi, ma capire in che modo preservare e non sprecare le risorse naturali.

  • Di Mr. Hubbert (---.---.---.69) 6 luglio 2010 23:37

    Signor Gianfranco il mio commento non voleva essere offensivo nei sui confronti ma solo una provocazione verso chi continua a sparare sentenze e propugnare ’non soluzioni’ senza mai andare alle radici vere dei problemi.
    Con simpatia..

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