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Addio a Leo de Berardinis maestro d’avanguardia

Il 16 giugno del 2001, a causa di un errore anestetico, Leo de Berardinis, cade in coma irreversibile. Il 18 settembre – dopo aver ottenuto nel luglio scorso la Legge Bacchelli- muore all’età di 68 anni.

 

Ho incontrato Leo de Berardinis nella primavera del 2000, dopo lo spettacolo Come una rivista. Da Eschilo a Totò, prodotto dal bolognese Teatro di Leo. L’intervista ebbe una prima pubblicazione all’interno di un periodico indipendentenell’autunno dello stesso anno. Poi ci fu un successivo incontro con Leo de Berardinis a Bologna (nell’inverno del 2001) dove discutemmo di alcuni aspetti dell’intervista che particolarmente lo avevano colpito nel rileggersi, parlammo di progetti e lavori in corso. E poi ci salutammo e me ne andai con due domande non fatte. La prima: “novità sul film ispirato ad Arthur Rimbaud?”. E la seconda: “Vorrei scrivere un libro-intervista con te (a partire da questo nostro piccolo dialogo)”.

Nel maggio del 2007 si svolge il primo appuntamento dedicato a Leo, promosso da Claudio Meldolesi e Angela Malfitano, PER RITROVARE LEO DENTRO E FUORI DI NOI (organizzato dal DAMS di Bologna). Al convegno partecipai come relatore e fu per me l’occasione per decidere di pubblicare integralmente la conversazione con Leo de Berardinis. Tanti motivi mi spinsero a questa pubblicazione: perché le risposte mi sembravano tutte decisamente attuali come anche le sue istanze progettuali, il continuo bisogno di una nuova politica culturale, il tema pubblico-privato, il rapporto con lo spettatore, il senso della costruzione dello spettacolo, il suo desiderio di un Teatro Nazionale di Ricerca). È importante ritrovare l’hidalgo immaginifico in questa piccola e preziosa conversazione (ora edita da Plectica con il titolo Per una poetica del molteplice. Dialogo con Leo de Berardinis, con una prefazione di Paolo Puppa). Un’occasione per discutere attorno all’opera di Leo nel segno della molteplicità per coglierne tutta la forza propulsiva, sognante e dirompente. Ho deciso di pubblicare questa conversazione, anche, per indicare, qualora ce ne fosse mai stato bisogno, la forza propulsiva di Leo e la sua capacità di saper attraversare il mondo e le cose partendo sempre dal teatro. Un teatro (recuperando la formulazione barthesiana, vera “macchina cibernetica”) che nella sua pienezza “polisemica” e “polifonica” riesce a tradurre un percorso emozionale, colto, divertente, intenso. Un teatro, quello di Leo de Berardinis – lo dico da un punto di vista di chi principalmente si occupa di studi di comunicazione- che sa essere un potente processo culturale in grado d’assorbire e rilanciare non solo i modelli dello spettacolo contemporaneo, ma anche la politica, il cinema, la poesia (tanta poesia), l’arte, la musica, la memoria, i sogni, le speranze.

“Ritroviamolo” Leo De Berardinis nelle sue “esplosioni” di una limpida tecnica recitativa dal vigoroso impianto attoriale assolutamente privo di retorica. Una recitazione dove traspare un armonico sentire che si lascia (dolcemente e/o violentemente, poco importa) tracimare da sonorità “sporche”, “voraci”, “dissonanti”, “grezze”, “dialettali”, “polimorfiche”. Un brioso “consumare” il recitato scenico da tutte le pratiche più viscerali del linguaggio. A tutto questo va aggiunto il suo “essere meridionale”, che al di là del trionfo di luoghi comuni è sicuramente uno dei punti di forza di Leo De Berardinis, che spesso reinventa il recitato in funzione dei magmi dialettali (napoletano e pugliese su tutti). E lo stesso succede con i corpi, le maschere, le sembianze, i volti. E così Amleto diventa Totò (e viceversa); King Lear viene scardinato dal canto di napoletana tradizione d’emigrante; Pirandello è un riferimento in grado d’assorbire tutte le possibili linee di fuga del teatro contemporaneo; Beckett e il suo vuoto trovano eco sul set di un Ostia pasoliniana…



Una continua scelta di una dialettica tanto puntuale quanto eversiva capace di plasmare in un unico transito gli opposti ed i contrasti. Una vera e propria poetica del molteplice pulsante di estremi, d’incantesimi e tensioni sperimentali e al contempo una dimensione sicuramente “combinatoria” da intendersi anche come lucida consapevolezza di un preciso gusto popolare. Un’idea (ed una pratica) di molteplici combinazioni come visionaria caparbietà che giammai ha vestito gli abiti della provocazione fine a se stessa, bensì sempre animata da un fondante bisogno di aprire uno squarcio reale dentro la scena teatrale. Una poetica del molteplice, quindi, come varco e come necessità che troviamo fin dal 1965 (dopo l’intensità degli “inizi” con Carlo Quartucci) dove Leo De Berardinis immediatamente al suo nascere d’attore indica subito i suoi punti di forza dove convive perfettamente la grande Commedia dell’arte e la sceneggiata napoletana. Un’amalgama che comprende al proprio interno diverse dimensioni espressive e culturali, tra avanguardia e tradizione come si suol dire: Totò e Ginsberg, Artaud e Petrolini, Viviani e Majakovskij, Eduardo e Baudelaire, Keaton e Rimbaud. Una poetica del molteplice dove i conflitti della ricerca estetica perfettamente coincidono con le dinamiche prospettive di un divenire che impareremo a chiamare post-moderno e poi post-human. Una scelta verso l’estremo che ha ulteriore trionfo espressivo a partire dai primi anni Settanta quando nel lasciare Roma, Leo De Berardinis e Perla Peragalo (già accanto con la firma scenica Leo e Perla e prima ancora, nel 1968, complici con Carmelo Bene nello storico Don Chisciotte) troveranno il loro spazio espressivo alle falde del Vesuvio con il Teatro di Marigliano. Esperienza totalizzante, profonda, lacerante, tra “arte e vita” e molto di più se fosse possibile. Con il “teatro dell’ignoranza” un estremo dialogo avviene dentro e fuori la scena tra attori, attori non professionisti, pubblico. Violenza e dadaismo, politica ed espressioni del non-finito, voci e luci… questo e tanto altro ancora erano alla base di ‘O zappatore (1972), King lacreme Lear napulitane (1973), Sudd (1974), Rusp Spers (1976). Quando il sodalizio con Perla sarà concluso, Leo fonderà la Cooperativa Nuova Scena e poi il Teatro di Leo che sancisce con la città di Bologna un nuovo laboratorio per la sua ricerca. Una ricerca sempre contaminata che ritroviamo anche nelle sue rare (e potenti) produzioni video-cinematografiche (alcune delle quali vedremo nella due giorni bolognese): A Charlie Parker (1970), Compromesso storico a Marigliano (1971), Atto senza parole (1981). Senza dimenticare tutti gli spettacoli dall’intelligente ricomposizione in chiave teleteatrale come Totò, principe di Danimarca (1990). Spettacolo dal rigoroso respiro “profanatore” dove ancora una volta compare Totò (già presente in Avita murì del 1978 e Leo De Berardinis Re del 1981, ma spesso inseguito ed omaggiato con sguardi, movenze, toni, tocchi e ritocchi in gran parte della ricerca scenica di Leo De Berardinis).

Un Totò “recuperato” dall’avanspettacolo allo schermo e nuovamente riportato in scena. Con il napoletano Totò, Leo realizza un’assoluta consunzione del tragico (e quindi della vita) verso la farsa, verso la macchietta dilatata, verso un’azione scenica in cui il Principe De Curtis (nel suo essere maschera dinamica, estremo corpo scenico, citazione filmica, contaminazione espressiva) sembra indicarci “senso e non senso”, meditazione e prassi del teatro (e della vita). Il teatro come vigore, lungimiranza, attesa, studio, meditazione, azione. Insomma, quella di De Berardinis è una tensione al teatro come vita, dove “l’azione” del corpo in scena diventa la decisa determinazione di un sentire. Un sentire rizomatico, magico, irriverente, combinatorio, totalizzante. Vero.

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