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“Acqua Santissima”, intervista ad Antonio Nicaso

Antonio Nicaso, giornalista, scrittore, ricercatore, è uno dei massimi esperti di ‘ndrangheta a livello internazionale. Tiene corsi estivi di storia della questione meridionale e storia delle organizzazioni criminali al Middlebury College (Vermont, USA). Nicola Gratteri è magistrato, attualmente Procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria. Hanno scritto a quattro mani Acqua santissima. La Chiesa e la ‘ndrangheta: storia di potere, silenzi e assoluzioni.

Redazione: Il libro mette innanzitutto in luce la devozione degli ‘ndranghetisti, a cominciare dalla frequentazione del santuario della Madonna di Polsi. La diffusione della fede nei loro ambienti è confermata persino da un sondaggio condotto all’interno del carcere di Reggio Calabria. Com’è possibile conciliare questi datti di fatto con l’affermazione di mons. Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro, che “la mafia è una forma di ateismo”, perché “chi ha scelto di appartenere a essa ha rifiutato il cristianesimo”? Oltre che offensivo nei confronti dei non credenti, non rappresenta forse l’idealizzazione di un cristianesimo ben lontano da quello reale?

Nicaso: Sono d’accordo con mons. Vincenzo Bertolone. La mafia, come la ‘ndrangheta, è una forma di ateismo. I mafiosi si sono inventati un Dio a loro immagine e somiglianza. È un Dio che tollera, che perdona, che giustifica tutto. Conciliano l’altare e la lupara, perché annullano continuamente il senso di colpa. Sostengono di essere stati costretti a uccidere, scaricando sulla vittima le loro responsabilità o si giustificano, sostenendo di avere eseguito ordini impartiti da altri, come se fossero militari in un contesto di guerra.

A nostro giudizio questa definizione non è comunque configurabile come “ateismo”: in ogni caso gli ‘ndranghetisti crederebbero in un dio, anche se in un dio diverso da quello professato dalla Chiesa cattolica.

Nel testo sono peraltro numerosi gli esempi di parroci che scoraggiano chi vuol parlare, o che “sfilano davanti ai giudici come testimoni della difesa”. Quanto ostacolano il corso della giustizia?

I preti sono sempre stati considerati dai mafiosi come un ottimo biglietto da visita. Esibiti come se fossero un salvacondotto, una garanzia contro ogni indagine giudiziaria. «Come potete sospettare di me, se io frequento la chiesa e sono amico del parroco?». Molti parroci hanno legittimato il potere mafioso sul territorio, descrivendo i vari boss come uomini devoti, disponibili e generosi. Ci sono stati preti che, anche negli ultimi tempi, hanno sfilato davanti ai giudici per difendere persone accusate di associazione mafiosa. E lo hanno fatto senza ritegno, convinti di difendere dei benefattori, non persone organiche alla mafia, alla ‘ndrangheta o alla camorra.

I riti di passaggio (battesimi, matrimoni, funerali) come pure le feste patronali e le processioni sono momenti importanti di legittimazione del potere ‘ndranghetista. La maggioranza del clero non sembra ancora considerare tali momenti come un’occasione per recidere certi legami pericolosi. Per esempio, il ricorso alla possibilità di trascrivere tardivamente i matrimoni nei registri dello stato civile, consentita dal Concordato, consente ai latitanti di sfuggire all’attenzione delle forze dell’ordine. Quali interventi politici e legislativi sono auspicabili per ridurre questi fenomeni, legittimi ma controproducenti?

Più che interventi politici e legislativi, sarebbe necessario una direttiva pontificia con indicazioni precise a tutti i sacerdoti per evitare che ci siano preti e vescovi pronti a negare sacramenti e altri disposti a tutto nella logica del «chi siamo noi per giudicare». In passato, ci sono stati preti che hanno celebrato le nozze di latitanti, sostenendo di non avere accesso ai casellari giudiziali. Penso che sia l’ora di prendere posizione. La Chiesa, a torto o a ragione, è stata chiara nelle sue determinazioni contro i gay, gli abortisti, i divorziati, ma anche contro i comunisti e i massoni. Non è stata altrettanto chiara contro i mafiosi.

Negli ultimi decenni non sono mancati esempi di “preti del coraggio” e “preti della denuncia”. Quale appoggio hanno ricevuto dai loro vescovi? E quale senso hanno le pastorali se, come voi stessi sostenete, “non incidono”? Perché la scomunica agli ‘ndranghetisti registra ancora “dietrofront” e genera fratture?

Alcuni preti che hanno avuto il coraggio di denunciare non sono stati del tutto sostenuti dalle gerarchie ecclesiastiche. Non basta dire che la mafia è anticristiana, bisognerebbe andare oltre. La scomunica potrebbe essere un segnale forte nei confronti dei mafiosi, ma anche nei confronti di chi li combatte quotidianamente.

Acqua santissima si apre sostenendo che “non è più il tempo di parole, ma di fatti”, e si chiude sostenendo che “la speranza c’è, e si chiama Francesco”. Non è un po’ utopico affidare il compito di un cambiamento così radicale a una persona sola?

Francesco è il papa. E lui può fare molto. Ha avuto il coraggio di mettere in discussione i poteri forti che ruotano attorno alla Chiesa. Nessuno lo aveva fatto in precedenza. Giovanni Paolo II non si era mai espresso contro lo Ior, la banca vaticana. Si era limitato a denunciare la mafia che uccide, seminando lutti. Papa Francesco è andato oltre. Se riuscirà a dare indicazioni precise su come comportarsi con i mafiosi, senza limitarsi alla denuncia, come ha già fatto, darà un grosso contributo alla lotta alle mafie. Un papa in controtendenza potrebbe spronare la politica, far capire a tutti che mafia e corruzione sono due facce della stessa medaglia e vanno affrontate di pari passo.

 

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