• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Religione > Abiezioni di coscienza e altrui diritti

Abiezioni di coscienza e altrui diritti

Eccola fare nuovamente capolino la formula magica del confessionalismo, il passepartout di ogni chiusura clericale contro i diritti delle persone e i doveri dello Stato: “obiezione di coscienza”. Ancora una volta l’ordine del giorno del dibattito sui diritti civili, riprodotto come un frattale nei palinsesti e sulle prime pagine, e così nelle dichiarazioni di esponenti politici di ogni schieramento, è dettato dalle esternazioni del pontefice, deciso a manomettere — in barba al funambolico tentativo di proporlo come personalità riformista — l’equilibrio tra libertà di coscienza e cittadinanza.

Stavolta l’oggetto del contendere è la timidissima legge sulle cosiddette unioni civili, sulle quali il papa si è espresso (pur senza menzionare specificamente il provvedimento appena varato dal Parlamento italiano) in una intervista al quotidiano cattolico francese La Croix: in essa si ribadisce che “in ogni struttura giuridica deve essere presente l’obiezione di coscienza, perché è un diritto umano. Incluso per un funzionario del governo, che è una persona umana”.

In Italia le discussioni sul tema datano ormai alcuni decenni, almeno a partire dal momento in cui il diritto a far valere un principio della morale individuale venne traslato dall’originario ambito di applicazione (la disciplina della leva obbligatoria) a quello dell’interruzione volontaria di gravidanza. Se ne trova menzione già nel testo della legge 194/78, all’articolo 9.

In esso, tuttavia, non solo è riconosciuto al personale sanitario il diritto a non collaborare a procedure abortive, ma si impone comunque agli ospedali l’obbligo di garantirle e alle Regioni di vigilare perché ciò avvenga. Due obblighi clamorosamente disattesi in più occasioni, data l’assenza di un limite al numero di obiettori ammessi in strutture sanitarie pubbliche e convenzionate; la stampa (pur la docile stampa italiana) ne reca frequenti esempi. Fenomeno ampiamente prevedibile, e che ha altrettanto prevedibilmente attirato i richiami dell’Europa: ultima la pronuncia del Consiglio d’Europa (sollecitata da un ricorso della CGIL) circa la discriminazione del personale medico non obiettore, il quale non solo è gravato da un maggiore carico di lavoro, ma viene costretto (in strutture con un’elevata percentuale di obiettori) a concentrare fortemente la propria attività sulle IVG.

Disconoscimento del diritto di scelta delle donne rispetto alla genitorialità

È ovvio, tuttavia, che se di mancanza di diritti si deve parlare, occorre soprattutto riferirsi ad un problema di autodeterminazione delle donne, di mancato riconoscimento di prestazioni sanitarie dovute alle donne (in base ad un testo di legge che, sia detto per inciso, tra non molto compirà quarant’anni), di un disconoscimento del diritto di scelta delle donne rispetto alla genitorialità. Un tema che travalica l’ambito della legislazione per toccare questioni che hanno a che fare con i suoi fondamenti.

Tali violazioni informano, con specifico riferimento all’aborto (e quindi a problematiche per definizione femminili) un ulteriore problema: quello dell’uguaglianza di fronte alla legge. Un’uguaglianza di genere che non a caso costituisce un fronte su cui le resistenze del clericalismo più retrivo si battono ormai da anni, ricorrendo a tutta la ferocia di cui la stampa cattolica (a sua volta spavaldamente protetta da politicanti a mezzo servizio e laici devoti) è capace. Non solo le turbolente polemiche sulle unioni civili non si sono placate nemmeno dopo l’approvazione di una legge che sarebbe assai pietoso definire di compromesso (e giunta al termine di un calvario di nominazioni ai limiti del delirante: PACS, DiCo, formazioni sociali specifiche, etc.), ma — molto al di qua dell’utopia del matrimonio paritario — la stessa elaborazione della figura della donna, dell’idea di famiglia che le darebbe collocazione antropologica, dei doveri che costituirebbero l’ossatura del suo ruolo sociale, definiscono uno status di subalternità di genere.

Assistiamo al solito circo sempre uguale di acrobazie polemiche ogniqualvolta si riesuma il tema dell’IVG, continuamente sollecitati come siamo da una cronaca che invece va allontanandosi dalla lettera della legge, perché per l’appunto ha a che fare con la sua manomissione da parte di forze che vi si oppongono senza neppure il bisogno, né il coraggio di chiederne l’abrogazione. Le lamentazioni di un Boulainvilliers contro l’uso che del diritto fece l’assolutismo monarchico francese oggi sarebbero fuori luogo, non perché non ci sia un sovrano (che invece parla, ordina, ingiunge, e non sarebbe nemmeno il nostro!), ma perché nelle condizioni presenti la legge appare ininfluente rispetto ai dispositivi di obbedienza che infestano le corsie degli ospedali.

L’istituto dell’obiezione di coscienza come rifiuto del servizio militare esprimeva l’esigenza logicamente corretta di lasciare alla libertà del singolo una possibilità di opzione etica: chi vi aderiva si opponeva a un’imposizione universalisticamente rivolta al cittadino maschio adulto da parte dello Stato; e dal momento che non è possibile scegliere di nascere uomini, né se diventare adulti, il rifiuto della “naia” esprimeva la sola via d’uscita da un conflitto morale che il legislatore, a un certo momento, ha dichiarato legittimo. Che l’aborto possa porre le condizioni per un tale conflitto è un innegabile dato di fatto, ma si colloca in un campo totalmente diverso per la buona ragione che non esiste alcun obbligo a scegliere per sé una professione che imponga di praticare l’IVG. Respingere la legittimità dell’obiezione di coscienza in campo sanitario non equivale a negare il diritto a esercitare la professione medica, né il diritto per il medico a specializzarsi come ginecologo, né il diritto di questi a non praticare aborti. Ciò che però non è sostenibile è che chi avanzi queste tre pretese possa operare in strutture finanziate da uno Stato che nel 1978 ha riconosciuto l’aborto come un diritto.

Che il citato articolo 9 ponga le basi di un conflitto di diritti è inoppugnabile. E però il problema è evidentemente di natura politica, perché attiene tanto all’esigenza di determinare quali istanze debbano prevalere (questione giuridicamente non irrisolvibile, purché la normativa ne definisca i termini in modo esaustivo — ed evidentemente non è questo il caso), quanto a valutare in che misura sia moralmente lecito dare cittadinanza a orientamenti patentemente confessionali che impongono obblighi e divieti a chi ne rifiuta i presupposti ideologici. Gli incessanti tentativi di deformazione del dibattito pubblico su questi argomenti delineano tutto un campo di tensioni in cui la morale cattolica si appropria delle regole del gioco polemico, viziandone le categorie e propagando la propria azione ad ambiti ogni volta diversi.

Ne discende un insieme di confuse contrapposizioni in cui il concetto di vita è estensivamente rimaneggiato fino ad includervi l’ovulo fecondato, ma ignorato nella sua profondità di percorso pienamente umano; il diritto alla vita è declinato come supremazia dell’evento biologico sul dato esistenziale (un bel paradosso, questo, in cui le posizioni più grettamente materialiste sono proprio quelle dei cattolici!); in cui la libertà delle persone è rimossa, ma è affermata quella di alcune categorie professionali.

A proposito di quest’ultimo elemento val la pena notare che, nell’immediato, il prossimo obiettivo è quello di assicurare l’obiezione anche ai farmacisti, completando così il percorso a ostacoli per le donne che vorranno ottenere anche nei fatti il controllo del proprio diritto alla (non) procreazione. La polemica si è spinta tanto in là che persino il Consiglio Nazionale di Bioetica, con una nota del 2011, si è pronunciato sul tema – ma con toni scandalosamente remissivi rispetto alle pretese di parte clericale. L’assenza di un’affermazione netta a favore dell’obiezione di coscienza del farmacista fu garantita solo dalla presenza di pareri discordi, ma la claudicante logica del testo nel suo complesso mostra che già un primo deteriore risultato è stato ottenuto: la cosiddetta “pillola del giorno dopo” può essere considerata, a certe condizioni, un farmaco abortivo (in quanto la sua funzione antinidatoria interverrebbe ad ovulo potenzialmente già fecondato). Dal che consegue che, non potendo verificare tali condizioni, esso deve essere considerato sempre come tale.

Il cammino, insomma, non solamente è ancora lungo, ma la sua fine pare allontanarsi sempre più da chi lo percorre. La laicità sembra esistere solo quanto basta per ammettere nel dibattito pubblico (e nelle aule del Parlamento) chi di laicità vera non vuol sentire parlare, e per questo la chiama “laicismo”. Che i chierici sentano attorno a sé un paese sempre più “laicista”?

Giovanni Fancello

Questo articolo è stato pubblicato qui

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox


Pubblicità




Pubblicità



Palmares

Pubblicità