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Dal dividendo della pace al debito di guerra

Il pendolo della storia ha invertito la direzione: servono molti soldi per il riarmo e la difesa. Come fare, in un periodo di diffuso stress della finanza pubblica?

L’Europa si presenta all’ennesimo appuntamento col destino, rappresentato questa volta dalla spesa per la difesa. La soglia critica, ben nota, è il 2 per cento annuo del Pil per i paesi Nato, come da reiterata richiesta di Donald Trump, per un continente che ha sinora vissuto e fatto free riding sotto il confortevole ombrello protettivo degli Stati Uniti. Ma questo numero vuol dire assai poco. Ad esempio, parliamo di sistemi d’arma o di costo del personale? O di entrambi? Ovvio che serve essere analitici, per evitare i soliti giochetti dialettici.

E ancora, come evitare duplicazioni, o meglio moltiplicazioni di spesa tra una pluralità di paesi? Servono consorzi, ma costruiti su quali modelli e guidati o coordinati da quali paesi? Pensiamo anche alla forza di reazione da trecentomila uomini, il nucleo del futuro esercito europeo di cui carsicamente si discute da molti anni. Nel frattempo, alcuni analisti fanno presente che la soglia di spesa, in caso tornassimo al clima di guerra fredda (spoiler: ci siamo già), potrebbe in realtà essere del 4 per cento del Pil.

INDIFESI CONTRO IL DEBITO

In quest’ultima ipotesi, almeno secondo simulazioni di Bloomberg Economics basate sul finanziamento a deficit della spesa per la Difesa, alcuni paesi avrebbero seri problemi di sostenibilità dei conti pubblici. In Eurozona tre paesi sono sotto la soglia di spesa Nato, tra cui quello che ambisce ad essere la punta di diamante della difesa europea ma che ha crescenti affanni sui conti pubblici. Poi ce n’è un altro, messo molto peggio, che in dieci anni di questo scenario di spesa potrebbe vedere il suo rapporto debito-Pil decollare verso il 179 per cento. Sarà tutto molto futuribile ma il futuro è oggi. Parliamo anche di paesi in profonda crisi demografica, aggravata da insufficiente sviluppo della produttività (per usare un eufemismo) e che, di conseguenza, rischiano un dissesto fiscale anche senza spingere la spesa per la Difesa.

I problemi sono anche per il paese leader, gli Stati Uniti. Che, secondo questa simulazione, se dovesse espandere la spesa per la difesa dall’attuale 3,3 per cento al 4 per cento del Pil, nel prossimo decennio vedrebbe lievitare l’indebitamento dall’attuale 99 per cento al 131 per cento.

Detto in altri e più generali termini: come conciliare e preservare la spesa pubblica, segnatamente per sanità, istruzione e pensioni, sommata a quella per riconversione ambientale, con quella per interessi che lievitano per effetto della crescita dello stock di debito e con la maggiorazione di quella per la difesa? Il punto è tutto qui.

Sempre secondo Bloomberg Economics, per Stati Uniti e intero G7, a dieci anni, il fabbisogno aggiuntivo potrebbe toccare i 10 mila miliardi di dollari. E la tendenza al riarmo è globale, anche se la cronaca ha portato a focalizzarsi sulle due situazioni di guerra guerreggiata, Ucraina e Gaza. Ma il riarmo è in essere: soprattutto in Cina, dove la spesa per la difesa, secondo un dato ufficiale che è considerato una forte sottostima degli esborsi effettivi, quest’anno crescerà del 7,2 per cento, massimo dell’ultimo lustro.

Di riflesso, tutta la regione Asia Pacifico è spinta al riarmo per contenere l’assertività di Pechino. Quest’anno la spesa per la difesa della Malaysia aumenterà del 10,2 per cento, a 4,2 miliardi di dollari mentre quella delle Filippine, in crescente attrito con la Cina per rivendicazioni marittime, crescerà diell’8,5 per cento, a 6,6 miliardi di dollari.

EUROBOND E ALTRI MIRAGGI

E qui veniamo alle questioni economiche, europee e non solo. Che farà la Ue? Già si levano voci che chiedono di emettere altri eurobond per finanziare lo sforzo difensivo comune; non sarebbe l’albero magico dei soldi ma debito, da rimborsare e sostenere. In un momento in cui gli esborsi del Recovery Fund procedono molto lentamente, causando frustrazione e richieste (italiane) di rinviare dopo il 2026 il termine degli investimenti (“perché c’è una guerra”, ha detto il ministro italiano dell’Economia, Giancarlo Giorgetti). Ma anche ipotesi di rinunce ai fondi europei per quei paesi (quasi tutti) che possono indebitarsi a costi inferiori a quelli della Commissione Ue, e che in tal modo eviterebbero pesanti condizionalità nell’uso dei fondi.

Ovviamente ci sono fortissime resistenze a nuove emissioni di debito comune, soprattutto da destinare a sistemi d’arma in cui alcuni paesi sarebbero leader e altri follower. Il Commissario Ue all’Economia, Paolo Gentiloni, ha ribadito che servirebbe un Tesoro comune europeo per avere capacità di spesa comune ed emettere un titolo “sicuro” comune. Ma servirebbe anche una fiscalità comune, e l’argomento resta tabù.

La variazione sul tema è quella di spingere la Banca europea degli investimenti (Bei) a finanziare gli investimenti nella difesa, ma anche qui si tratterebbe di debito e probabilmente la banca andrebbe prima ricapitalizzata, per preservarne il rating tripla A. Poi ci sono i soliti riflessi pavloviani, quelli elettivamente italiani, che chiedono il leggendario “scorporo”, cioè di togliere dal deficit le spese per la difesa. Ma, indovinate, i soldi sono fungibili, il deficit si allargherebbe comunque e “qualcuno” finirebbe a chiamare “spesa per la difesa” qualche bonus per serramenti corazzati o monopattini di color grigioverde. Dal paese debito-dipendente origina anche un debito di credibilità, malgrado gli sforzi di Mario Draghi.

La tendenza piuttosto fisiologica dei governi ad accomodare maggiori spese con deficit porterebbe a pressioni sul mercato dei capitali, contribuendo a mantenere elevati i tassi d’interesse, anche in conseguenza dello stimolo espansivo prodotto da emissioni di debito. Circostanza che finirebbe col destabilizzare i governi e spingerli verso soluzioni traumatiche che potrebbero oscillare da una “semplice” repressione finanziaria all’assalto all’indipendenza delle banche centrali.

TEMPI DURI PER I PACIFICI BOTTEGAI

L’orizzonte appare cupo, sia dal punto di vista delle relazioni internazionali che da quello di finanza pubblica, mentre l’economia godrebbe probabilmente di un periodo iniziale di robusta spinta, prima di essere destabilizzata dal disordine fiscale e monetario. Naturalmente, c’è sempre la possibilità di dire “grazie, non compro armi perché sono buono e pacifista, ogni sera accendo un cero all’anima santa di Giorgio La Pira e dormo tranquillo”. Altri, meno religiosi e più bottegai, tornerebbero a invocare la pace attraverso i commerci, magari tirando nuovamente fuori dai cassetti la frusta e fallace massima “dove passano le merci non passano gli eserciti”.

E pazienza che la storia abbia già tragicamente sconfessato questa credenza un secolo addietro. Il pendolo ha preso una differente direzione. Accantonata l’illusione dei grandi consessi di raffreddamento e ricomposizione delle controversie internazionali, la parola tornerebbe a eserciti e tecnologie.

Per i pacifici bottegai sarebbero tempi cupi. Sintetizzati dalle considerazioni dell’ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale, Simon Johnson, oggi al Massachusetts Institute of Technology: cosa significherebbe per il vostro paese, per l’economia e per gli investitori, il rifiuto di aumentare la spesa per la Difesa? La risposta, sottintesa ma non troppo, è “essere esposti a pressioni militari esterne a supporto di richieste di vario tipo”.

Il pendolo si è spostato, appunto. Dal “dividendo della pace” stiamo tornando al debito di guerra.

Foto di Defence-Imagery da Pixabay

Questo articolo è stato pubblicato qui

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