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Niente credito per mancanza di aspettative sull’economia

Arretramento, riflusso, stagnazione
Dall’inglese “recession” - Fase del ciclo economico caratterizzata da un rallentamento 
La Recessione economica, indica i livelli di attività produttiva più bassi di quelli che si potrebbero ottenere, usando in maniera efficiente tutti i fattori produttivi a disposizione.
 
Se il potere di acquisto delle famiglie risulta insufficiente e non assorbe la crescita della produzione si determina un calo degli investimenti e la chiusura di numerose imprese.
 
Il calo dell’occupazione riduce la domanda di beni di consumo, provocando la riduzione della produzione, gli imprenditori producendo meno sono costretti a licenziare, innescando a loro volta un ulteriore calo dell’occupazione anche in altri settori.
 
Se il profitto nel settore dei beni di consumo diminuisce, il reinvestimento rallenta, provocando una crisi nel settore di produzione; se la domanda di beni di consumo diminuisce, la crisi si aggrava ulteriormente.
 
Si innesca così, una flessione nello sviluppo, dovuta al rallentamento del ritmo di produzione del paese, che deteriora gradatamente la qualità della vita e dei servizi dei cittadini.
 
Aumentando gli investimenti nella spesa pubblica per le infrastrutture, si innesca il processo inverso della recessione. 
 
Nelle fasi di ripresa aumenta l’occupazione e conseguentemente il reddito delle famiglie, si riducono i costi per gli ammortizzatori sociali (cassa integrazione etc.) si realizzano infrastrutture che aumentano l’efficienza delle attività produttive e la qualità di vita dei cittadini, consentendo l’inversione del ciclo e ponendo le premesse per un a nuova ripresa.
 
Con la ripresa i lavoratori ottengono aumenti salariali che incentivano l’aumento dei consumi ed il miglioramento del ciclo di ripresa.
 
L’aumento dei consumi, generato dalla crescita della domanda, provoca un aumento della produzione per soddisfare la crescita della domanda (effetto acceleratore degli investimenti).
 
Le variazioni cicliche vengono influenzate anche dalla disponibilità delle banche alla concessione del credito.
 
L’efficienza dell’investimento dipende da cinque fattori:
 
la tecnologia utilizzata;
il livello di organizzazione;
il prezzo dei beni capitali;
il costo del denaro per finanziare gli investimenti;
l’andamento del mercato del bene prodotto.
 
Se tutti i sopraindicati fattori sono equilibrati, aumenta la disponibilità all’investimento e l’aspettativa sulla redditività.
 
L’aumento degli investimenti fa crescere le attività produttive e il fenomeno si autoalimenta grazie al meccanismo moltiplicatore.
 
Aumenta anche la disponibilità delle banche alla concessione del credito.
 
Allo stato attuale la mancanza di concessione del credito delle banche è determinata anche dalla mancanza di aspettative sull’economia.
 
La creazione di nuovi stabilimenti produttivi, provoca l’aumento della produzione e dell’occupazione in tutti i settori produttivi che forniscono materiali e macchine necessari a costruirli e a farli funzionare.
 
L’aumento dell’occupazione determina a sua volta l’aumento della domanda verso i settori che producono beni di consumo.
 
Le banche crescono se cresce il territorio, quando le banche hanno liquidità concedono prestiti a tassi di interesse ridotti, ciò stimola ulteriormente la produzione e gli investimenti e la ricerca.
 
L’innovazione consente di inventare nuovi prodotti e migliorare quelli esistenti, diminuendo i costi.
 
L’effetto moltiplicatore viene invece frenato quando la domanda si rivolge ai prodotti esteri.

Commenti all'articolo

  • Di uno (---.---.---.87) 11 giugno 2009 21:09

    E a cosa servirebbe questo riassuntino di un corso introduttivo di economia, peraltro in forma di tema da terza elementare?

  • Di Anonimo (---.---.---.5) 12 giugno 2009 09:56

    Sebbene propositi di questo tipo, che sono a mio parere necessari per il superamento della cosiddetta "crisi", la quale oggi soprattutto aggrava la condizione economica mondiale in generale e quella italiana in particolare, possano a prima vista apparire semplici e banali, è stupefacente il fatto che nel nostro paese ancora nessuno si sia rimboccato le maniche ed abbia tentato di metterli in atto... 

    • Di Cristiano Fantinati (---.---.---.141) 12 giugno 2009 11:57

      Anche se sui libri di economia c’è scritto che le banche servono a sostenere l’economia, in realtà l’unico parametro di riferimento è il profitto.

      Anche i sassi sanno che il profitto oramai è divenuto l’unico assioma planetario.
      In altre parole, il pianeta terra, ruota ancora intorno al suo asse e rimane caldo al suo interno grazie alla speculazione e al profitto.

      Ora: una banca, non presterà mai del denaro a qualcuno, se questo qualcuno non garantisce il necessario profitto. Le banche fanno analisi approfondite su come guadagnare, quindi, dopo aver ricevuto i soldi dai contribuenti necessari al loro pseudo-salvataggio, li investiranno, o speculeranno (come preferite tanto è uguale) in petrolio, in Cina e in India.

      In pratica gli analisti finaziari e gli speculatori (come preferite tanto è la stessa cosa) hanno già decretato la fine delle economie mature e quindi non si capisce perchè dovrebbero prestargli del denaro.

      La politica Keynesiana questa volta non servirà a nulla, infatti costruire costose infrastrutture che poi non serviranno alla produzione non ha senso.

      La produzione nei prossimi 20 anni ce la possiamo scordare, meglio dedicarsi al turismo, all’energia verde e a una nuova economia rurale.

  • Di ANONIMO (---.---.---.217) 12 giugno 2009 12:50
     
     
     
    Il termine economia keynesiana indica sia le teorie macroeconomiche riconducibili a John Maynard Keynes (1883-1946), sia le Politiche economiche a esse ispirate. Secondo Keynes, nel Capitalismo i Mercati non possono assicurare da soli un equilibrio di piena occupazione. Nei periodi di crisi, a causa di diminuzioni di reddito previste o effettive, che in caso di disoccupazione possono arrivare fino alla perdita dell’intero salario, i lavoratori dipendenti limitano i consumi, mentre gli imprenditori riducono gli investimenti a causa delle sfavorevoli prospettive di guadagno. La scarsità della domanda deve essere in parte compensata con la crescita della spesa pubblica, che non va finanziata con un aumento delle imposte ma con l’accensione di Crediti (deficit spending) in modo da assorbire i risparmi improduttivi. I crediti verranno poi ammortizzati - anticiclicamente - nelle fasi di crescita economica. Dopo la seconda guerra mondiale, il pensiero keynesiano assunse i tratti di una teoria sistematica della congiuntura, e le sue diverse correnti ebbero un peso predominante nel quadro dell’economia politica (Scienze economiche ). Dagli anni 1970-80 l’economia keynesiana, a causa della sua focalizzazione sul mercato interno in un periodo di crescente interdipendenza economica a livello intern., è stata costretta sulla difensiva dalle teorie neoliberali (Neoliberalismo), inizialmente soprattutto dal Monetarismo, che si stava affermando nei Paesi anglosassoni.
    Contrariamente a un’idea ampiamente diffusa, durante la Crisi economica mondiale in Svizzera le teorie keynesiane non vennero accolte. Le misure per incrementare l’occupazione furono varate in seguito a pressioni politiche e sociali e risultarono di gran lunga insufficienti a garantire un rilancio dell’economia. Le giustificazioni teoriche addotte spec. da parte sindacale (Fritz Marbach, Max Weber) si basavano sulle teorie del sottoconsumo allora largamente diffuse, molto meno convincenti della Teoria generale di Keynes, pubblicata solo nel 1936 e non recepita in tempo. Nel secondo dopoguerra, le teorie keynesiane assunsero un notevole peso in ambito univ., ma non trovarono applicazione pratica nella politica economica nazionale. Poiché le forze dominanti concordavano sulla necessità di combattere la disoccupazione tramite la riduzione della manodopera straniera ("teoria del cuscinetto"), gli strumenti necessari per la direzione globale dell’andamento economico non vennero mai potenziati. I programmi occupazionali dei decenni 1970-80, 1980-90 e 1990-2000 risultarono talmente modesti che non si può parlare di un effetto anticiclico, ma al limite di un’attenuazione della politica finanziaria prociclica.
     
     
    • Di Cristiano Fantinati (---.---.---.141) 12 giugno 2009 14:34

      Credo che sarebbe appropriato prima leggere, poi postare un commento personale, formattato con cura, con un eventuale rimando o un link alla documentazione che proponi.

      Grazie.

  • Di Domenico Stramera (---.---.---.217) 12 giugno 2009 17:10
    Concordo perfettamente sull’affermazione sopra riportata:
    “Il termine economia keynesiana indica sia le teorie macroeconomiche riconducibili a John Maynard Keynes”
     
    L’Italia con il suo alto debito pubblico in teoria non potrebbe indebitarsi ulteriormente, il problema però, è che il debito pubblico aumenta comunque lo stesso per compensare i minori introiti derivanti dalla diminuzione del gettito fiscale per effetto della recessione, ed esistono stime per cui raggiungerà a breve il 121% del PIL.
     
    Per quanto sopra a mio modo di vedere sarebbe opportuno, per compensare i minori introiti, aumentare prima il debito pubblico per finanziare le infrastrutture (ad esempio necessarie ad incrementare il turismo) generando in tale modo la ripresa dell’economia e dei consumi.
     
    Avremmo utilizzato il maggior debito pubblico, non per compensare i mancati introiti, ma per la costruzione di infrastrutture che servono a rilanciare l’economia ed al miglioramento della qualità della vita dei cittadini.
     
     
    “L’Italia, si legge nel rapporto, PricewaterhouseCoopers (www.pwc.com/it/publications/... )del 12 maggio 2009 possiede il più ampio patrimonio artistico a livello mondiale con oltre 3.400 musei, circa 2.100 aree e parchi archeologici e 43 siti Unesco. Nonostante questo dato di assoluto primato a livello mondiale, il RAC, un indice che analizza il ritorno economico degli asset culturali sui siti Unesco, mostra come gli Stati Uniti, con la metà dei siti rispetto all’Italia, hanno un ritorno commerciale pari a 16 volte quello italiano.
    Il ritorno degli asset culturali della Francia e del Regno Unito è tra 4 e 7 volte quello italiano. A fronte della ricchezza del patrimonio culturale italiano, rispetto alle realtà estere esaminate, emergono enormi potenzialità di crescita non ancora valorizzate.”
     
    L’Italia è dunque, una delle prime nazioni del mondo, una nazione che ha molto da offrire.
     
    Domenico Stramera
     

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