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India, una Costituzione di troppo

L’ennesimo boccone avvelenato dell’acerrima campagna elettorale indiana, in corso anche durante le settimane di voto, riguarda due temi che potrebbero essere i nostri: redistribuzione della ricchezza e modifica della Costituzione.

 I due elementi non sono scollegati nell’India ricchissima per alcuni e poverissima per tanti. Il premier e leader Modi non sfugge all’abitudine in voga fra i populisti a ricoprire incarichi istituzionali senza mettere da parte la direzione politica del suo schieramento, e piega le mosse ufficiali agli interessi di parte. Così sostiene che i discorsi lanciati da più d’un partito dell’opposizione, riunita nel cartello India, su un possibile finanziamento sociale ottenuto con parte dei grandi capitali interni (quelli ad esempio della coppia chiacchieratissima dei magnati Adani e Ambani e di un’altra ventina di Paperoni, sono stati calcolati circa duecento miliardi di dollari) favorirebbe un passaggio di ricchezza dalle famiglie hindu a quelle islamiche. E’ ovviamente una boutade, ma fa presa fra chi legge la realtà con gli occhi di una politica malata di fanatismo fondamentalista. La realtà affrontata da studi di settore, ripresi dal Partito del Congresso con l’intento d’intervenire sulle caste e sotto-caste tuttora presenti in quella società, parla di un 1% di cittadini indiani che detengono il 40% della ricchezza nazionale, contro un 50% di popolazione che non raccoglie neppure il 10% di quei beni. Ricercatori di settore sostengono che le odierne diseguaglianze sono più o meno quelle dell’epoca coloniale britannica. In tal senso il Partito del Congresso che ha governato per decenni non è esente da responsabilità, anzi. Eppure Rahul, attuale erede della dinastia Nehru-Gandhi, non demorde. Per lui affrontare la questione alla lunga renderà un servigio ai ceti poveri, al Paese che rilancerà due pilastri della moderna società quali sanità e istruzione, e anche al partito. I critici vedono nello spettro della redistribuzione la fuga di chi sarà disincentivato a investire in un’India più egualitaria, garante di diritti e foriera di un ascensore sociale. Su un punto che ha a che fare coi patrimoni: la proposta d’introdurre una tassa di successione sui beni immobili e non, c’è il dissenso di taluni economisti allarmati dall’attacco alla proprietà.

Infatti la linea para liberista del Bharatiya Janata Party denuncia lo scippo che potrebbe subire chi col sudore della fronte ha messo su un patrimonio piccolo o grande che sia. La progressività nella tassazione è indicata come la strada migliore per non far mancare risorse economiche allo Stato e alle possibili riforme. Ma un ostacolo a eque riforme, dicono Gandhi, Yadav e Singh a nome di National Congress, Samaiwadi Party e Aam Aadmi Party, sono i favori governativi ai colossi miliardari di Mukesh Ambani, mister 90 miliardi di dollari, tanto la rivista Forbes ha calcolato il suo patrimonio, e Gautem Adami. Il primo è anche noto come “re del ferro” per il controllo da maggiore azionista di Reliance Industries Limited colosso siderurgico-meccanico, successivamente affermatosi anche nei settori della raffinazione e della petrolchimica. Settanta miliardi di dollari è stimato l’attuale il patrimonio di Adani Group, che di recente ha conosciuto un crollo azionario di decine di miliardi. Ne quotava 126 miliardi, ma dopo la comparsa del dossier diffuso da Hindenburg Research che accusava l’affarista, originario come Modi del Gujurat, di manipolazioni azionarie e frodi contabili il capitale si è contratto. Le conseguenti indagini predisposte dalla Corte Suprema di Delhi hanno bollato come poco credibile il rapporto della società di ricerca americana, e Modi, di cui Adani è aperto sostenitore, ha difeso a spada tratta il miliardario. Secondo il governo la vicenda non ha rappresentato solo un colpo alla sua impresa ma “un attacco alla nazione indiana”. Comunque il sogno elettorale del Bjp è strapazzare l’opposizione nelle urne e portare nella Camera bassa 400 deputati per cambiare la Costituzione. Un progetto che segue la cancellazione dell’autonomia nel Kashmir, la limitazione dei diritti umani, lo strisciante apartheid introdotto dal Citizenship Amendment Act. Un piano che vuole archiviare l’India tollerante e inclusiva pensata dai padri della patria Rejendra Prasad, Bhimrao Ramji Ambedkar che insieme a Nehru, Ghandi, Patel e alri avevano stilato la Carta entrata in vigore nel gennaio 1950. Ora Modi pensa al colpo di spugna, qualcosa che si respira anche in Italia dove si vogliono mandare in soffitta Calamandrei, Einaudi, Pertini, Parri e i loro princìpi.

Enrico Campofreda

 

 

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