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La querela di dio

Nel nostro ordinamento diverse norme a tutela del sacro sono ormai ridimensionate a illeciti amministrativi. Ma esistono ancora privilegi che creano disparità di trattamento tra credenti e non credenti. La responsabile delle iniziative legali Uaar Adele Orioli affronta il tema sul numero 1/2024 di Nessun Dogma

 

C’è un operatore di call center che all’ennesimo blocco del pc indispensabile per svolgere il suo lavoro tra sé e sé bestemmia. Per usare la definizione dell’articolo 724 del nostro codice penale, utilizza quindi un’invettiva o una parola oltraggiosa contro la divinità. E viene licenziato in tronco.

Succede a Bologna a fine 2023. Succede a dir la verità non solo perché nel nostro ordinamento, seppur spesso depenalizzati (non sempre, come vedremo) e ridimensionati a illeciti amministrativi, sono molti gli spazi di tutela privilegiata riservati al sacro e alle varie propaggini del concetto stesso, ma anche per questioni contrattuali-sindacali che esulano dal nostro discorso.

Fatto sta, specchio dei tempi, che in molti se non tutti i territori italiani l’appellativo ingiurioso di divinità, santi e madonne assomiglia molto più a un intercalare consueto o al limite a un’espressione un po’ maleducata.

Di certo l’accostamento fra dio e canidi o suini non è considerato evento meritevole di così tanto sdegno e sanzione da pregiudicare il posto di lavoro.

E infatti al levarsi dell’indignazione contraria e delle minacciate proteste e scioperi dei sindacati, appellantisi a dir la verità più al cardinal Zuppi che all’articolo 18, il lavoratore viene riassunto con tante scuse (del lavoratore, ovviamente).

Eppure lo specchio dei tempi rimanda anche immagini ben più cupe.

Qualcuno forse ricorda uno sketch del trio comico La smorfia, presente tra gli altri un giovanissimo Massimo Troisi, dove l’arcangelo Gabriele mancava clamorosamente il bersaglio della sua “annunciazione, annunciazione”.

Chissà cosa succederebbe oggi, dove un siparietto del tutto innocuo e banalmente grossier dei comici Francesco Paolantoni e Biagio Izzo su natività e presepe ha provocato una formale interpellanza in commissione di vigilanza Rai per blasfemia.

Perché a fronte di una società sempre più se non secolarizzata perlomeno smaliziata, a fronte di decenni di elaborazione non solo dottrinale ma anche pragmatico giuridica sui diritti umani fondamentali, non solo avanzano rigurgiti tanto reazionari quanto da pulpiti incoerenti (dio, patria e famiglia…) ma permane una legislazione favorevole a una ormai inaccettabile tutela del sacro e del sentimento religioso in quanto tale, come fosse scontato che valga qualcosa in più rispetto ad altro e soprattutto ad altri. E questa legislazione ove possibile viene interpretata nel peggiore dei modi.

Sempre dalle cronache di fine anno troviamo infatti la conferma in Cassazione di una vicenda che per una volta è davvero paradossale ed eccessiva quanto i titoli dei media che ne hanno parlato.

Gridare “vai via” al vescovo durante una processione è doppiamente reato: turbativa di funzione religiosa e vilipendio alla religione (Cassazione, terza sezione penale, sentenza numero 1253 del 21 novembre 2023).

La storia che ha dato origine al caso è poi particolarmente surreale, perché le due persone condannate ora con sentenza passata in giudicato sono due fedeli in contrasto non con la processione ma solo con le modalità di organizzazione della stessa: a loro dire nemmeno si erano indirizzati al vescovo, ma ai “paranzieri”, cioè ai portatori della statua del celebrato san Matteo.

Nulla da fare, inutile appellarsi al diritto di libera espressione del pensiero, meno ancora al diritto di critica. Gli ermellini riprendono e ci ricordano, caso mai ce ne fossimo dimenticati, cosa può essere ammesso e lecito nell’ambito di una critica alla religione nel nostro laico, moderno e democratico ordinamento.

Secondo quanto scritto, copiando dalla terza sezione penale del 2015 (sentenza numero 41044), perché si possa aprire bocca è necessario che vi sia «espressione motivata e consapevole di un apprezzamento diverso e talora antitetico, risultante da un’indagine condotta, con serenità di metodo, da persona fornita delle necessarie attitudini e di adeguata preparazione».

Insomma, prima laureiamoci in teologia, poi argomentiamo dottamente un quarto d’ora sul sesso degli angeli e forse ce la passano. Paura? Personalmente abbastanza.

D’altronde non è un caso se le stesse istituzioni internazionali si sono più volte soffermate sulla necessità di abolire le leggi antiblasfemia nel mondo: per disinnescare potenziali conflitti religiosi, ma soprattutto per non far passare attraverso la tutela di un concetto mutevole ed evanescente come quello di sacro e divino quella che è di fatto una sistematica repressione della libertà di coscienza e di espressione del pensiero.

Non solo. La presenza di una norma come quella dalla quale siamo partiti, cioè quell’articolo 724 del codice penale che punisce le offese a qualsivoglia divinità, crea un vulnus notevole nei confronti di chi non ha una divinità nella propria cosmogonia e quindi può, in teoria e da precedenti di cronaca sappiamo anche in pratica, essere liberamente insultato anche nei suoi più alti riferimenti etico-valoriali: il non credente, insomma.

Non che ci interessi, almeno credo, l’allargamento di una tutela liberticida, anzi. Ma il fatto che una prescrizione del genere crei un doppio binario di protezione è un – grosso – motivo in più per chiederne l’abolizione. Poco conta che la bestemmia in sé e per sé sia depenalizzata e possa comportare al massimo una multa da trecento euro.

Anche tralasciando i casi in cui non c’è stata depenalizzazione alcuna ma anzi un inasprimento delle possibili condanne (come ad esempio la fattispecie di danneggiamento di oggetti di culto introdotta del 2006 e che può comportare fino a due anni di reclusione) la difesa dell’onorabilità di una incerta esistenza è contrastante con tutte le direttrici basilari del nostro diritto penale.

Non ultima quella che prevede calunnia e diffamazione come reati perseguibili solo dietro iniziativa della parte ipoteticamente lesa, non quindi di ufficio per iniziativa del pubblico ministero.

Con l’unica notevole eccezione, appunto, nel caso delle divinità: la loro supposta limpida reputazione può venire difesa da chiunque; dal capo ufficio di call center, al vigile urbano, al giudice togato. Senza che da alcun dio sia mai giunta però alcuna lamentela, men che mai poi una querela formale.

Adele Orioli

 


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