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Che lingua fa? I problemi della lingua italiana

Intervista alla Dott.ssa Maraschio, presidente dell’Accademia della Crusca.

L’Accademia della Crusca rappresenta sicuramente la più prestigiosa istituzione linguistica italiana. Raccoglie studiosi ed esperti di linguistica e filologia italiana e, fra quelle esistenti, è la più antica accademia italiana.

 

Siamo riusciti ad intervistare il presidente. Anzi la presidente. La dottoressa Nicoletta Maraschio, prima donna a ricoprire tale carica, dal 1582.

Dottoressa Maraschio, ci descrive in poche parole come nasce e di cosa si occupa l’Accademia della Crusca?

L’ Accademia della Crusca nasce nel 1582-83 con l’obiettivo chiaro e definito di occuparsi dei testi e della filologia della lingua italiana. Intorno agli anni novanta del ‘500, si orienta verso un vocabolario che uscirà nel 1612, cui faranno seguito quattro edizioni, diventando un testo fondamentale per chiunque volesse scrivere in italiano. Un vocabolario imitato dai grandi vocabolari europei che ha contribuito a diffondere la consapevolezza che proprio in un vocabolario si poteva concentrare e dare espressione all’identità linguistica e nazionale di un popolo. Il vocabolario è stato appena ripubblicato in anastatica con un volume di accompagnamento e un dvd.

Qual è il rapporto tra “lingua ufficiale” e dialetti?

Al di sotto dell’italiano come lingua testo hanno svolto un ruolo importante i dialetti, una vera e propria ricchezza della nostra storia linguistica.

Dal punto di vista dell’uso, ad esempio in famiglia o nei luoghi di lavoro, i dati Istat registrano un uso calante del dialetto anche se la percentuale degli utilizzatori è molto alta, oltre il 30%, con picchi molto elevati in in alcune ragioni come Sicilia, Veneto e Campania.

Ma anche i dialetti, come la lingua, hanno subito una trasformazione: sono meno utilizzati dalle nuove generazioni, che li conoscono meno, e si sono italianizzati, cioè hanno subito l’influenza dell’italiano, per cui molte parole non sono quelle originali ma sostituite da vocaboli prettamente italiani.

Il dialetto viene recuperato in ambito letterario - si veda l’esempio di Camilleri o la poesia dialettale - e recuperato dai giovani (internet, blog) con una funzione non solo comunicativa ma espressiva. Si usa per scherzare, per giocare, per esprimere sentimenti che con la lingua ufficiale potrebbero apparire banali.

C’è un decadimento o un impoverimento della lingua, soprattutto di quella parlata?

Per rispondere dobbiamo anzitutto considerare la lingua in maniera astratta. L’italiano, dal punto di vista delle sue potenzialità, resta una lingua complessa e ricca, con un vocabolario particolarmente ampio. E questo deriva dalla sua storia, perché l’italiano nasce come lingua letteraria, come lingua scritta, particolarmente elegante e ricca di varianti.

Questo dal punto di vista astratto. Poi, però, bisogna guardare agli usi della lingua, c’è il lato della concretezza degli usi, direttamente influenzati dalle situazioni comunicative in cui la lingua è utilizzata. Anche qui è necessario distinguere tra diverse persone perché la formazione linguistica delle stesse è molto carente. E questo è da imputare principalmente alla scuola perché di fatto è lì che si registra una scarsa attenzione alle diverse potenzialità della lingua, e quindi a un addestramento ai diversi usi: gli stessi insegnanti non hanno una formazione propriamente linguistica e di tutto quello che sarebbe necessario per usare bene una lingua. C’è alla base una carenza di formazione degli insegnati e carenze della scuola per quanto riguarda la formazione linguistica, ignorando il potere e la centralità della lingua.

Cosa pensa dell’analfabetismo di ritorno e del fatto che una percentuale importante della popolazione italiana dispone di una competenza molto bassa della lingua nazionale?

Questo problema è strettamente connesso alle nuove forme di comunicazione (email, skype sms), dove non importa utilizzare tutte le potenzialità della lingua ma è fondamentale ottenere certi risultati e quindi che la lingua venga utilizzata in maniera efficace.

Ancora diversa è la questione dell’uso della grammatica: la nostra lingua ha una tradizione essenzialmente di lingua scritta, e nella lingua scritta la grammatica è diversa dalla grammatica della lingua parlata. Mentre la prima permette una successiva rilettura e correzione, quando si parla deve si adattare la propria lingua alla situazione e all’interlocutore e quindi improvvisare. Un esempio può essere l’uso del congiuntivo: nel parlato si tende ad utilizzare molto poco la subordinazione, si danno informazioni una dietro l’altra in modo coordinato e se si mette un "che" o una subordinata non è una subordinazione vera e propria. Rispetto ad altre lingue romanze in cui il rapporto tra scritto e parlato c’è da secoli e si è giunti ad una semplificazione della grammatica e della morfologia prima di quanto stia capitando ora all’italiano, è questione di sapere, inteso come conoscenza acquisita, e di avere la possibilità di scegliere e, quindi, di utilizzare la lingua in maniera consapevole.

Uno dei problemi degli insegnanti è quello di educare a sviluppare una capacità di muoversi nello spazio linguistico, cioè possibilità di scegliere tra le diverse varietà del repertorio dell’italiano contemporaneo. Questo è uno degli obiettivi fondamentali che la scuola si trova di fronte.

La scrittrice albanese Elvira Dones sostiene che una delle minacce più serie per la lingua italiana sia rappresentata dalla cosiddetta “quantificazione delle lingue”, ossia dall’importanza attribuita sulla base del numero di parlanti e del peso economico delle nazioni di riferimento.

Non parlerei di quantificazione perché ci possono essere delle lingue parlate da un numero ristretto di persone, ma con una importanza storico-culturale altissima.

Il problema di una corretta politica linguistica europea è quella di favorire il multilinguismo, cioè tutte le lingue europee, indipendentemente dal numero di parlanti di ciascuna di esse, devono essere considerate un patrimonio comune dell’Europa perché ogni lingua ha una sua tradizione culturale e sua storia: non è una questione di quantità.

L’italiano non è parlato solo entro i nostri confini, e la richiesta di italiano da parte di tutti i Paesi del mondo è in crescita. Si tratta di investire per rispondere in maniera adeguata a questa richiesta di italiano che ci viene da tutto il mondo, soprattutto dall’America Latina e dall’Europa Orientale, con un numero di studenti che richiedono di seguire corsi di italianistica in varie università che sono talmente tanti da non poter essere accolti. Se vogliamo che la nostra cultura e la nostra economia si diffondano sempre più, dobbiamo favorire la conoscenza della nostra lingua.

Cosa pensa del “burocratese”?

Quando venne creato lo stato unitario, il burocratese è stata una delle fonti dell’italianizzazione, uno dei canali attraverso cui l’italiano si è diffuso nelle diverse regioni. Poi c’è stata una degenerazione e un abuso legato a un fenomeno di insicurezza e di tendenza alla stereotipia, orientandosi verso scelte auliche e un parlare lontano dalla colloquialità, dimostrando insicurezza nella conoscenza della lingua.

Tra i giovani autori o emergenti c’è qualcuno che l’ha particolarmente colpita per la sua conoscenza dell’italiano?

Paolo Giordano. Ciò che mi ha colpito è la sua scrittura poco esplicita, l’uso implicito della lingua che denota abilità e a cui ha contribuito a mio avviso proprio la sua formazione non umanistica.

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