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(In)ter(per) culturando: Andrea Di Consoli - parte II

3 Il padre degli animali.

Questo romanzo non è una prosa lineare, piuttosto una serie di piani dove le miscelazioni con la poesia sono evidenti, bave colanti. Ci sono almeno due livelli che salgono e scendono in questa giostra che è il tessuto narrativo impastato con pazienza e sapienza da Di Consoli.

Il primo livello, primo per comparizione, è la storia del Padre e del Figlio, una storia che accompagna il lettore nel corso delle pagine, anzi, è il lettore stesso che si aggrappa alle loro vicende per non annegare, per non rischiare di perdere l’orientamento. Ma c’è anche un altro livello, lo si potrebbe definire secondo non per importanza bensì per presenza. Si mostra quando il Padre e il Figlio si sono già presentati, è un ‘qualcos’altro’ che parla di loro due ma anche di un ‘altro’ che sono personaggi di carne quanto luoghi (‘la collina odora’), movimenti (‘il gesto di’), animali (‘le mosche’) e sospensioni.
 
Il romanzo racconta di un padre fuggito dalla sua terra nativa per cercare fortuna in Svizzera poi tornato, assieme al figlio, perché “Nessuna terra vuole questo corpo morto come quella terra esatta che ha sentito i piedi caldi delle corse […] E quella terra sta lì ferma e aspetta, e riconosce tutti, e assegna un albero, un fiore, una croce”. (pag.12)
 
Il padre vorrebbe crescere il figlio in quei luoghi che lo hanno visto, a suo tempo, bambino. Si propone al sindaco per un posto da bidello (che non salterà mai fuori), finisce in un cantiere poi su un furgone che vende frutta fresca al dettaglio poi. Ne prova tante di soluzioni, insomma, questo padre che non si arrende pur svelandosi, a tratti, rassegnato. Di Consoli tratteggia una figura tormentata, crudele quanto fragile, forte ma che fatica ad avere certezze, combatte poi indietreggia, vorrebbe ma non arriva. Il padre è un uomo capace di ferire il gatto per dargli una lezione poi però sta male a chiedere un posto di lavoro al sindaco (“Il padre ringrazia, epperò esce come avesse rubato a faccia nuda. Prima di accendere l’Opel, ha voglia di piangere, e infatti gli s’inumidiscono incontrollatamente gli occhi.” pag.30). In effetti l’essenza di questa figura viene chiaramente espressa dallo stesso Di Consoli a pag.119: “[…] nessun padre è veramente padre se i padri si ergono sul mondo, se non sono smarriti, se non ammettono di essere timidi per troppa paura e aggressivi per troppa timidezza”. L’obbiettivo principale del Padre, quindi, è trasmettere al figlio le conoscenze, insegnargli a stare nel ‘mondo rotondo’, a gestire le situazioni e a rialzarsi dalle cadute. “Impara a crescere senza guardare le persone che ti circondano. Ama i luoghi nonostante le persone”. (pag.23) in una continua ricerca del ‘bene migliore’ come fosse un’ancora, la regola più importante che tiene lontano il male, impedisce agli uomini di perdersi per sempre perché “Il bene migliore è fare il bene su questa terra anche quando senti che le forze ti abbandonano” (pag.108). Sono dunque insegnamenti duri, spesso espressi come ordini che il figlio ascolta ma.
 
Anche il figlio è figura dai lineamenti contradditori. E’ curioso, domanda spesso al padre (ogni volta che può) e si intestardisce se le risposte non lo soddisfano o sono frettolose (salvo poi scusarsi quanto sente il padre irritato). “Il figlio vorrebbe capire tante cose” (pag.54), è sensibile (forse troppo, secondo il padre, che spesso lo ammonisce tentando di interrompere certi pensieri “perché è troppo piccolo per”). Ma ha anche paura, soprattutto di morire. E queste sue paure lo porteranno a ragionare da solo (nei sogni), a fissarsi su simil-veri puntini rossi sulla pelle, a temere le malattie altrui e ad avere un presentimento sul padre stesso. 
Si parla continuamente della morte e del morire.

“I padri non vorrebbero mai morire; e i figli non vorrebbero mai trovarsi da soli in questa valle”. (pag.49) esordisce Di Consoli, poi va oltre, prova a spiegare cos’è questa paura (del figlio ma poi di tutti) e lo fa all’improvviso, alternando i livelli, colpendo il lettore più forte che può. “Cadono così, le persone. All’improvviso, una malattia, sentono una fitta, un capogiro, un colpo di tosse con un grumo di sangue. Ci lasciano così, le persone, lentamente, e nessuno è preparato”. (pag.84) Fino a smorzare i toni, a trovare un senso a tutto questo dolore, alla paura sorda per l’incognita, l’imprevedibile quanto inevitabile scomparsa che in questo libro accompagna alcuni personaggi come un alone oscuro: “i morti sono dentro di noi, tutti i nostri pensieri sono pensieri di persone che già sono morte. E i morti sono fiori, […]” (pag.117).
 

4 La curva della notte.
Teseo è un uomo tormentato, annoiato, attanagliato da un ‘male di vivere’ quasi inspiegabile nei suoi tessuti contraddittori, tra alti e bassi feroci e improvvisi. Due mogli e una figlia alle spalle, un passato da ferroviere poi un locale, il Byron, diventato casa e supporto, passione e peso.

Finché qualcosa stravolge i fragili equilibri di cristallo: Rocco, vecchio amico dimenticato, torna, lo cerca. E prima di morire in un tragico quanto sfuocato incidente, riapre le porte di un passato che Teseo aveva chiuso forzatamente, nel disperato quanto inutile tentativo di dimenticare vecchi rancori, tradimenti e quel senso di disgusto e abbandono che, in realtà, ha continuato a perseguitarlo tra gambe aperte e giri di valzer. Perché Teseo non si nega nulla, specialmente i piaceri della carne che lo fanno sentire vivo, riescono a fargli provare ‘qualcosa’ di temporaneo quanto prezioso.

In questo romanzo Di Consoli mantiene le tinte forti e scure del precedente ma sposta l’angolazione, vira e si concentra su un uomo e su un vivere inquieto, selvaggio quasi, tra rimozioni e riprese. E soprattutto dove i sentimenti esistono per riflesso, perché hanno un nome che ogni tanto è necessario pronunciare. Finché il passato torna e con lui i rimescolamenti dell’anima, di quell’anima che sembrava scacciata, sopita o addirittura annientata e invece resiste. C’è. Si svela proprio quando i granelli di sabbia scivolano quasi del tutto, sfuggiti a dita ormai scosse da tremori, invecchiate e incerte. Confuse.

Di Consoli gestisce una prosa ruvida, lucida, che risente della poesia nel sangue rubandone atmosfere, ritmi e approcci ma in modo velato, rispettoso.
Ci sono tre diversi livelli narrativi, individuati dai capitoli stessi, brevi e fulminanti, e dai titoli. La stessa cronologia sarà comprensibile solo leggendo, strada facendo. C’è un passato che è remoto, mischiato quasi ai sogni, all’irrazionalità dei pensieri incompleti, dove il tempo ha iniziato a rosicchiarne pezzetti. Ma ci sono anche due strutture presenti che sembrano slegate, assestanti. Sembrano perché non lo sono. In questo romanzo si racconta una storia che non è ombelicale: l’analisi introspettiva di un uomo complesso e controverso. Si tirano fili precisi tra tessuti che sono anche analisi di una società, quella che vive oggi seppure con riferimenti precisi al sud; e i personaggi sono protagonisti e simboli. Ci sono, dunque, passato remoto, prossimo e presente. Ma l’ordine non è scontato. Tutt’altro.
Il titolo stesso è traccia da seguire per trovare il ritmo giusto, una prima decodifica. ‘Una’ notte si consuma un presente annunciato dalle prime righe, in una ‘curva’ che si allunga, sale poi scende irrimediabilmente verso il basso, quando ormai ogni personaggio ha recitato la sua parte, incastrando tasselli e sfaldando certezze.
Di Consoli ha capacità espressive non comuni, usa un’aggettivazione mirata e ‘visiva’, ogni nuova scena viene tratteggiata in modo che il lettore ci si ritrovi immerso, tra odori, sapori, umori.
 
Non ce la facevo più a vivere […] la morte che più non si teme quando si è stanchi, sfiniti, alla fine del deserto; alla fine di una statale che porta nel regno dei vivi che sono già morti.

(pag.63)
 
Questo parallelismo tra vita e morte, anzi peggio, questo considerare taluni ‘vivi’ come fossero già morti è decisamente pressante, nel corso della narrazione. Teseo sa, sente. E queste sue percezioni incombono, irrompono tra avvenimenti presenti e passati.
Il passato è la nostra vergogna, la palude che ci fa impazzire di risentimento e di noia.
(pag.83)
 
Rancori dunque per accadimenti mai dimenticati, impossibili da cancellare e allo stesso tempo la noia, quel lento lasciarsi vivere tra il torpore di azioni che scivolano e la sottile depressione verso un futuro che appare piatto.

Solo il sesso, l’atto in sé, sembra scatenare nel protagonista reazioni ’vitali’ mai noiose. Ed è un impulso irresistibile, unico a cui Teseo non si sottrae mai, neanche quando si sente avviluppare da trame oscure, a lui avverse. C’è senza dubbio una forte e presente componente sessuale in questo romanzo ma non la definirei erotica, non ci sono manifestazioni di un desiderio che insegue, annusa, carezza corpi; bensì tratteggi brevi e precisi di azioni solitarie. E’ un prendere, per Teseo, un dare per riflesso. I gesti sono ripetitivi, non si curano di forme o sostanze. E’ l’atto, come accenno sopra, l’unico vero obbiettivo. Il resto è un contorno spesso inutile, privo di sapore. E lo spiega in più d’un occasione lo stesso Teseo.
 
Non esiste, il piacere. Esiste solo il dolore di non amare più, o di amare male, come una ferita che non si chiude.
(pag.107)
 
 
 
Fonti
Recensionea ‘Quaderni di legno’ di Nunzio Festa.
L’intervista di Massimo Vecchi su Retidedalus.
Poesie della disperata carne, rintracciate on line dal blog wordpress di Comunità Provvisaria.
Gli approfondimenti di Di Consoli, all’interno dell’open blog di Massimo Maugeri, con cui collabora ne La stanza dello Scirocco.
Su Ibs, le pubblicazioni di Andrea Di Consoli.
 
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Prossimamente:
(5) Alcune considerazioni sparse.
 
Già pubblicato:
 

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