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Un pezzo di Nobel arriva in Nepal

Imparare da micro (comunità e villaggi del Nepal) per gestire, in modo diverso, il macro.

Finalmente sono riuscito a scrivere questo post su Elinor Olstrom, la prima donna che ha ottenuto un Nobel per l’economia, che ha vissuto in Nepal, che ha girato per i villaggi e che ha segnalato un sistema di gestione comunitario delle risorse ancora ben funzionante. La Olstrom ha avuto la possibilità di studiare comunità in Maine, Messico, Nepal e come si organizzavano, con regole e istituzioni, per non litigare tutti i giorni quando c’era da raccogliere la legna o irrigare i campi (How community institution can prevent conflict). Anche il suo collega, Oliver Willamson, è partito dal micro (Theory where business firms serve as structure for conflict resolution) per capire meccanismi, diversi, per gestire il macro.

La Olstrom ha girato in lungo e in largo il Nepal (dalla fine degli anni’80) e ha notato che se l’idea comune è che, in assenza di precise norme e diritti di proprietà, le risorse comune sono sfruttate fino all’esaurimento dall’individualismo sfrenato (the tragedy of commons) ciò può anche non accadere. Ha notato che le comunità possono creare regole efficaci e procedure rispettate e condivise per un utilizzo controllato delle risorse naturali e per la loro preservazione. L’autogoverno, specie in aree remote, lavora meglio che non regole imposte da lontano. Un modello che permette di sviluppare capacità nei villaggi, sia individualmente che collettivamente, e generare ciò che è definito capitale sociale e umano.

Un modello di gestione che in Nepal continua a funzionare e regola l’utilizzo delle risorse naturali (legno, erbe medicinali, foraggio, acqua, pietre, sabbia) nelle comunità collinari dove vive il 70% del Nepal. Andiamo in un villaggio del Nepal, sulle colline, per costruire le case (e noi per le scuole) usano fango, pietre e legno, sabbia per il cemento; per cucinare i bambini vanno nelle foreste a raccogliere sterpaglie, tronchetti, rami secchi, il cherosene costa caro è trasportato a piedi, il gas non esiste così come l’elettricità. Alla sera e al mattino le bambine e le donne vanno nelle sorgenti comuni a prendere l’acqua in grandi brocche di rame (i più poveri in vecchie tanche); poi s’incontrano cespugli umani, sempre donne e bambini, con le gerle cariche fino all’inverosimile di erba e foglie per il foraggio degli animali. Gli uomini, nelle stagioni, lavorano nei campi, mettono a posto i canali, aggiustano le pipeline che portano acqua nei pressi delle case e che arriva da fumi o sorgenti. Quanto si raccoglie nelle risorse naturali comuni rappresenta il 10% del reddito di una famiglia contadina nepalese.

Nelle zone più fortunate, cioè dove vi sono più alberi il legno è venduto così come la resina dei pini o le piante medicinali. Tutte queste risorse sono comuni, ancor oggi, nel 70% del Nepal dove questa è la vita di tutti i giorni degli abitanti dei villaggi. Le foreste occupano ancora, malgrado tutto, il 40% del territorio nepalese (una parte sono ghiacciai e aree d’alta montagna sopra i 4000 metri) e sono concentrate al 50% nelle zone collinari che attraversano da est a ovest gran parte del Nepal.

Un tempo c’erano i Talukadar (capi comunitari), magari qualche brahmino che sapeva scrivere e leggere o possedeva più terra degli altri, incaricato di gestire le risorse comuni. Non sempre tutto filava liscio e come sempre i più ricchi, più ammanigliati, i più istruiti comandavano e approfittavano. Ma in genere, lontani giorni di cammino dal potere, con leggi sconosciute e vaghe, la gestione comunitaria (mukhiya) nei villaggi nepalesi ha, più o meno, da sempre funzionato adattandosi alle diverse disponibilità di risorse naturali e alle strutture sociali locali.

I villaggi composti da 500-600 famiglie avevano tutto l’interesse a evitare conflitti e a gestire con buon senso i beni naturali comuni. Il sistema ha funzionato meglio nelle colline dove la proprietà è spezzettata, l’economia agricola di sopravvivenza e i villaggi (geograficamente) più isolati. Nel Terai pianeggiante, c’erano altri interessi e altri poteri più forti e i latifondisti hanno vinto creando grandi estensioni coltivabili, disboscando, alla faccia delle comunità. Progressivamente, con la strutturazione dello stato nepalese si è cercato di regolamentare la gestione comunitaria in un processo non semplice e contrastato.

Nel 1951 sono state nazionalizzate tutte le foreste e si è entrati in un regime di “liberi tutti” che favoriva i potenti (specie nel Terai); nei primi anni ’70 si è iniziato a parlare di participatory forestry management (PFM) con alcuni progetti di gestione comunitario nel distretto di Sindhupalchok; con la prima Costituzione negli anni ’90 si è formalizzata l’istituzione degli Forest User Groups, cioè istituzioni di villaggio incaricati di gestire le risorse naturali; con il Local Self Governance Act 1998, è stato dato alle organizzazioni comunitarie (scuole, risorse, agricoltura, etc.) grandi e teoriche autonomie.

Quando la gestione comunitaria orizzontale è stata rimpiazzata da sistemi più moderni (irrigazione su vasta scala), scrive la Olstrom, questi strumenti si sono rivelati meno efficienti (anche dal punto di vista economico) per la diminuzione degli incentivi sociali (il bene non è più mio) che favorivano la produttività e il mantenimento. La fine della gestione comunitaria, continua il premio Nobel, ha anche provocato la dispersione di capitale umano e sociale formatosi per gestire nei villaggi le risorse..

Non sempre tutto funziona bene, scrive uno degli studiosi nepalesi più attenti, Y.B. Malla In some places local elites and government officials continue to work togheter in limiting the access to the poor forest users, often with the tacit support of donors and NGOs”. Dove questo accade i povri sono esclusi, il legname pregiato contrabbandato e i villaggi impoveriti. La migrazione di giovani all’estero aumenta questi problemi. Ma, in genere, valanghe di studi dimostrano che il sistema di gestione comunitario funziona, non solo per le risorse naturali ma anche per le scuole (School Management Commitee), per costruire generatori o reti elettriche (programma governativo l’elettrificazione rurale), per la costruzione o mantenimento delle strade, pozzi (ogni villaggio costruisce o ripara il suo pezzo), nelle opere d’arte (con l’antica istituzione dei Guthi, incaricati di gestire i templi).

La potente FECUFON (Federation of the Community Forest Users) raccorda migliaia di comitati comunitari (CFUG-Community Forest Users Groups) e tratta con il governo su norme e prelievi fiscali. La gestione orizzontale delle risorse naturali permette un uso controllato e obbliga, anche per legge oltre che per buon senso. le persone ad assumere comportamenti cooperativi e a rimboscare, controllare, spingere per l’utilizzo corretto. Nei villaggi dove i CFUG funzionano nuovi alberi sono piantati regolarmente, l’utilizzo delle risorse idriche controllato, i dirigenti sottoposti a auditing sociali.

Quando lavoravo a Kavre, i maoisti imposero una donazione ai CFUG locali e contemporaneamente, per impedirla, il governo bloccò i loro conti bancari, la cosa durò poco perché questi non erano i fighetti della cosiddetta società civile di Kathmandu, ma contadini incazzati che lavoravano, duramente, per mangiare.

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