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Ricostruzione Abruzzo. A caval donato non si guarda in bocca, ma ai mostri sì

Anziché "dalle Alpi alle piramidi" disse dalle "tende alle case" e fu "dalle tende ai c.a.s.e.", ma una "spruzzata" di questi c.a.s.e., messi "dove si potevano mettere", non è la soluzione. È solo lo sfoggio di tecnicismo asettico ancorché negazione dell’autodeterminazione e nulla più che la semplificazione della ricostruzione deprivata di contenuti culturali e sociali. Della ricostruzione de L’Aquila e del suo territorio, neppure abbozzata dopo più di sei mesi, non si deve più parlare, perché le strategie iniziali non devono essere per nulla modificate.

Non si deve sapere che la ricostruzione della città distrutta il 6 aprile è stata affrontata prevalentemente con il Progetto C.A.S.E., cioè per la realizzazione di 19 Complessi Antisismici Sostenibili ed Eco-compatibili. In realtà, sono semplici lottizzazioni residenziali di aree individuate dalla Protezione civile con il solo concorso “tecnico” dell’Amministrazione locale e sostanzialmente finalizzate alla costruzione di 150 edifici per un totale di 3.750 alloggi adatti ad ospitare 15 mila persone, con la casa distrutta o resa inagibile dal sisma [1].
 
Un fatto straordinario, innovativo? Apparentemente e soltanto per le modalità d’attuazione. Vediamo perché.
 
Inizialmente concepite come new town né provvisorie né definitive, ma “durevoli”, furono partorite solo poche ore dopo il terremoto, quando ancora nessuno conosceva l’entità del danno. Perciò, non nascono come risposta ragionata alla specificità del terremoto abruzzese. Sembra avessero tentato di generarle nel 2002, ai tempi del terremoto di San Giuliano. Pare certo che, a fecondare il nuovo embrione in diverso grembo, sia stata la stessa atavica idea: fare San Giuliano Due o L’Aquila Due simile a Milano Due.
 
In Puglia, questa metodologia abortì, ma a L’Aquila, la magnificata creatura venne repentinamente alla luce sebbene frantumata in due dozzine di piccole entità, peraltro diffuse in un territorio enormemente esteso. Alcune morirono dopo pochi giorni, perché caddero su terreni regolarmente espropriati ma poi nuovamente restituiti, in seguito ad accurata verifica d’idoneità idro-geologica, ai legittimi proprietari. Le superstiti, collocate in aperta campagna, interessano aree che mai potranno essere servite dal trasporto pubblico; oppure, cercando la saldatura fra due nuclei urbani esistenti, distruggeranno il carattere antico di questi borghi che s’era preservato almeno negli aspetti tradizionali e documentari; oppure, ancora, essendo localizzate lungo le principali direttrici d’accesso all’area centrale determineranno un continuo edificato tra centro e periferia.
 
Per aver ignorato tanto la “città” quanto la “campagna”, normalmente sarebbero considerate delle vere e proprie neoplasie urbanistiche, infestanti tutto il territorio comunale. Invece, mentre nulla sostanzialmente fu fatto per arrestare la perdurante necrosi del centro storico prevalente, delle new town suddette (per discendenza o per elezione) l’ostetrica di turno favorì la mutazione d’aspetto e di carattere.
 
Cosicché, rivestite in foggia di Piani Particolareggiati d’Attuazione dello Strumento Urbanistico Generale, queste banali lottizzazioni residenziali hanno acquistato caratteri d’urgenza assoluta e sono state ri-battezzate secondo i crismi della pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza delle opere ivi previste, nonché cresimate come “varianti” al Piano Regolatore del 1979. Così, con un lifting esclusivamente tecnico, venne sanata la loro difformità tanto con la destinazioni d’uso del suolo quanto con la vigente normativa.
 
Si potrebbe dire che l’urbanistica è stata soffocata per dare fiato solo all’edilizia? Certamente, basta constatare la mutazione semantica delle cose fatte: se gli stessi procreatori chiamano i c.a.s.e. semplicemente le case, allora le new town diventano le casette di Berlusconi tanto per i settembrini destinatari delle prime già consegnate quanto per tutti quelli che ancora aspettano di veder recapitare le ultime, magari con la slitta di Babbo Natale, o nella calza della Befana. Cosicché, le cose dovute dallo Stato ai terremotati appaiono a tutti dei “doni” personali del monarca.
 
Orbene, si può guardare in bocca a caval donato? Ogni osservazione critica al fare del sovrano diventa blasfema irriconoscenza o sacrilega eversione, figuriamoci come verrà valutata l’analisi obiettiva d’un dono presentato come un fatto “miracoloso”. Tuttavia, crediamo che per credere, sia invitabile vedere e capire.
 
In primo luogo, in questa edilizia frenetica ed interminabile non notiamo neppure un benché minimo valore architettonico. Vi ravvisiamo solo un gran sfoggio di pseudo-ingegneria perché meramente ingegnata, per la sicurezza antisismica della ciclopica struttura di fondazione (utilizzata poi come autorimessa), a far salire alle stelle i costi totali dell’opera. Trascurando il protrarsi senza ragione dei tempi di realizzazione della stessa, sono cresciuti anche quelli della soprastante costruzione che, per essere prefabbricata, poteva terminare assai prima. Tant’è che poi, per guadagnar tempo, è bastata la parola d’un super tecnico (controllore & controllato) per impiegare più di 7mila dispositivi (isolatori-dissipatori antisismici anche se non collaudati completamente) nel sistema destinato a reggere unicamente delle casette leggere quanto quelle del Canada, ma belle quanto quella cantata, molti anni fa, da Gino Latilla.
 
Tra le nebbie medianiche, scorgiamo che tutta l’attenzione (maniacal-presidenziale) è stata posta solo sulla “casa”, esaltando “primordiali” ed individuali necessità umane, ormai prevalenti sulle esigenze della collettività. Gli interni sono stati personalmente curati, ed esibiti, poiché gli “inquilini” delle regali casette avessero soprattutto il televisore al plasma, le lenzuola felpate e, per una intera settimana, il frigo pieno.
 
Alla fin fine, sistemeranno anche gli spazi esterni con vasche, pesciolini e tanti fiori di lillà, ma senza le attrezzature sociali tipiche d’una vera città. Però, tutti quanti passeranno di là diranno: “che belle le casette di sua maestà”. Essenziale era fare. Fabbricare a tempi di record. Produrre senza soste, con tempi e metodi “innovativi”. Costruire per dare subito un “tetto” dopo le tende. Guai, allora, a cercar di chiedere dove, come e quando all’intendente della ri-costruzione che sempre promette ma mai paga ammende, anche quando disattende ai giuramenti.
 
In queste lande desolate mancano le condizioni per “abitare” come nei luoghi vissuti e partecipati del cuore d’una città che appare uccisa due volte. Per il Comitatus Aquilanus prima del terremoto,”nonostante la forsennata espansione del dopoguerra, L’Aquila continuava ad essere un sistema urbano prezioso e delicato. La città aveva conservato molti elementi di qualità che la rendevano piacevole e vivibile. Nonostante la dilatazione della sua struttura, L’Aquila era rimasta facilmente accessibile (…), preservava ancora un rapporto diretto tra città e campagna (…) e poteva contare su un nucleo urbano centrale, formato dagli spazi e dalle funzioni urbane più pregevoli, che fungeva come vero e proprio magnete per le 99 frazioni del comune. Tutto ciò è stato cancellato non solo dal terremoto, ma ancor più dai particolari connotati della ricostruzione che si distingue nettamente da tutte le esperienze precedenti”. [2]
 
Georg Josef Frisch, Vezio De Lucia, Roberto de Marco e Paolo Liberatore ritengono che prima del sisma i due terzi della popolazione comunale abitasse nel centro storico e nelle zone adiacenti, mentre solo un terzo fosse residente nelle frazioni e nei nuclei periferici. Ora, temono che la periferia possa diventare numericamente più rilevante del capoluogo, ospitando oltre la metà della popolazione residente. Se così fosse, il capoluogo perderebbe un terzo degli abitanti, mentre solo un terzo dei residenti nel centro storico vi ritornerebbe ad abitare ed a lavorare.
 
Inoltre, “con il tempo, senza fretta si ricostruirà – dopo che si sarà rassegnato chi non sarà potuto rientrare. Non tutto si ricostruirà, non per tutti, magari non per farci vivere la gente ma piuttosto per dar vita a una L’Aquila-land per turisti e fruitori di shopping, richiamati dalla possibilità di ammirare come era una città preziosa prima del terremoto, prima del miracolo tutto italiano delle new town”.
 
“Anche se non piacerà vivere nelle new town, la gente ci resterà. Prima o poi gli verrà proposto un baratto. Ti prendi questa casa e rinunci a quella di prima. (...) Nel frattempo, il centro storico resterà abbandonato. Nemmeno puntellato. Gli edifici saranno sottoposti ad una specie di selezione naturale, anche oltre la scossa demolitrice. Sopravvivranno i migliori. (…) L’Aquila bella si ripopolerà per enclaves determinate dagli interventi di chi potrà e dalle logiche speculative”. “Il resto cambierà destinazione d’uso, coerentemente con la diaspora delle principali funzioni amministrative e culturali. (…) viveva anche dello struscio dei ragazzi nel centro storico. Sarà un altro mondo. L’Aquila si dilaterà, colmando gli spazi tra un centro vuoto di gente e le sue tante new town, saldandosi inevitabilmente con esse con le ben note modalità che caratterizzano le periferie spontanee, estranee a qualsiasi riflessione sull’assetto del territorio”.
 
Riportiamo queste considerazioni perché ci sembrano fondamentali per capire il senso degli interventi post terremoto e comprendere il destino, in realtà, prefigurato per L’Aquila ferita a morte. Derivano da un approfondito lavoro d’analisi, condotto con metodo e serietà, su tutti i dati di fatto disponibili e controllabili. Crediamo servano moltissimo al dibattito, anche perché contengono cartine territoriali, tabelle, computi sino ad ora inediti, ma indispensabili per permettere, ad ognuno, di fare le proprie valutazioni.
 
Per contribuire alla conoscenza di questa realtà, possiamo solo illustrarla in dettaglio, presentando: a) la natura dei luoghi; b) il carattere ed i dati di progetto; c) i soggetti e le fasi di lavoro in atto o appena concluse nei vari cantieri. Come? Giacché “il miracolo” suddetto è stato rateizzato (e lo sarà fino alla fine di dicembre), anche la sua iconografia sarà sviluppata a puntate. Per iniziare il tour nelle new town, intanto si veda Arischia.
 
[1] Questi numeri del Piano C.A.S.E. sono poi stati sensibilmente incrementati, nonostante il parere espresso dai comitati, e quindi avvalorando l’ipotesi che le necessità effettive non fossero calcolate, ma campate in aria. Si veda: http://www.protezionecivile.it/cms/view.php?cms_pk=15963&dir_pk=395
[2] Comitatus Aquilanus “L’Aquila. Non si uccide così anche una città”. Pdf in:

Commenti all'articolo

  • Di daniele (---.---.---.155) 26 novembre 2009 10:06

    E’ una favola?
    Prima di scrivere cavolate vi consiglio di farvi un giro nel centro storico de L’Aquila in compagnia di un "aquilano vero". Non so che posti abbiate visitato ma vi consiglio un link per rendervi conto di cosa è successo nel capoluogo d’Abruzzo il 6 Aprile: http://www.laquilanuova.org/?page_id=2

    In quanto alle abitazioni del Progetto C.A.S.E. dubito fortemente che qualcuno ci resti dentro, la maggior parte sono piccole e inadatte per ospitare famiglie.
    Vivevo e lavoravo nel centro storico dove settimanalmente vado e vi assicuro che i lavori di puntellamento saranno terminati entro la prossima primavera quando, si spera, partirà la ricostruzione vera (se il Governo ci da i soldi)!!!

    Fino ad oggi, al contrario di quanto dicono giornali e telegiornali, non si è ricostruito niente! Si è pensato solo a dare un alloggio (molti non lo avranno) a 40.000 persone che hanno perso la casa.
    L’unica cosa in cui si sta sbagliando è lo spreco assoluto che andrà sicuramente a danno della ricostruzione. Nulla è stato fatto per chi lavorava nelle zone rosse..ad oggi abbiamo una città di disoccupati!
    Perchè non parlate di questi problemi invece di andare contro scelte sensate?
    Daniele ([email protected])

  • Di Doriana Goracci (---.---.---.109) 26 novembre 2009 16:23
    Doriana Goracci

    Portassero pazienza tutti quelli che cercano C.A.S.E. e Lavoro. La nuova edilizia penitenziaria ha già destinato 500milioni alla Costruzione di Nuove Carceri e la disperazione del non lavoro fà chiedere agli operai della Fincantieri anche quelle galleggianti, purchè si lavori...
    E sia Pace Sociale, perbacco!
    "nostro malgrado non disdegniamo nulla..."

  • Di pv21 (---.---.---.14) 26 novembre 2009 20:07

    Quale spettacolo di solidarietà e di sobrietà sia stato il G8-realtà contro reality è sotto gli occhi di tutti. Quale macchina mangia-soldi (dei contribuenti) sia stata mossa per realizzare questa "impresa epocale" (miracolo) non lo sapremo mai. Intanto da più parti si parla di tassa di scopo per non restare a metà del guado. (c’è di più => http://forum.wineuropa.it

  • Di (---.---.---.135) 2 dicembre 2009 19:35

    La storia dirà come sono andate davvero le cose, purtroppo per L’Aquila e gli aquilani sarà troppo tardi qualsiasi cambiamento.
    Almeno non si disprezzi il lavoro di una persona che prova a vedere le cose con i suoi occhi ed a pensarci su, caso rarissimo, con la sua testa.
    Ma gli aquilani si sa, sono adepti di Sant’Agnese.

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