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L’eterno equivoco della "libertà di stampa"

In Turchia il gruppo editoriale Dogan, che ha un controllo dominante sui media, proprietario di giornali e canali televisivi, oltre che di molte attività commerciali, ha ricevuto una multa di 1,7 miliardi di euro, manovra di ispirazione governativa, in quanto questo gruppo editoriale è critico verso l’attuale governo turco.

Il primo ministro, nell’intento di indebolire e forse distruggere il più potente apparato mediatico della Turchia, ha aiutato diversi uomini di affari a lui vicini ad acquistare giornali e canali televisivi. In Turchia si parla di “libertà di stampa” compromessa e di pericoli per la democrazia.

La prima cosa che ci sarebbe da dire, prima di stracciarsi le vesti, dovrebbe essere quella che smembrare un monopolio è sempre un fatto positivo, ma una oligarchia di vari proprietari di media amici del governo si chiama oligopolio e la “libertà di stampa” continua ad essere un miraggio.

Esattamente come in Italia, dove il primo ministro gode di un apparato mediatico dominante a suo favore, ma ha l’impudenza di attaccare in ogni modo le poche voci di dissenso, e in nome della libertà, questo signore ha cacciato come sguatteri prima Montanelli da un giornale di sua proprietà, poi Enzo Biagi dalla Rai, semplicemente perché chi ha i soldi ed è il proprietario decide la linea editoriale.

Non si tratta di libertà di stampa, ma della libertà di un capitalista di stampare ciò che gli fa comodo.

Se aggiungiamo ai proprietari di giornali le segreterie politiche che decidono la linea dei giornali di partito, ecco che di “libero” rimane ben poco.

L’unico giornale cartaceo che può definirsi libero è quello fondato da Travaglio, Padellaro, ed altri, “Il fatto quotidiano”, che non ha un padrone, ma ne sono proprietari i giornalisti, e ha rinunciato al ghiotto finanziamento statale della editoria, spreco di soldi pubblici che tiene in vita artificiale giornali che se dovessero campare con i propri lettori sarebbero già falliti.

Fortunatamente molti lettori stanno abbandonando i giornali cartacei a favore di Internet, dove circolano molte informazioni che i giornali dei padroni omettono scientificamente di dare.

Diverso è il discorso per la televisione. Non è un giornale che puoi non comprare più, si insinua nel nostro quotidiano ed è molto difficile non rimanerne influenzati.

Qui agiscono due monopoli, che non sono assolutamente in concorrenza tra loro. Uno è controllato dai partiti politici ed in particolare dai partiti al governo, che hanno l’indecenza di denominarlo “pubblico servizio”, e l’altro è il monopolio privato Mediaset, questo sì “pubblico servizio”, ma per la carriera politica del suo proprietario.

E’ elementare dedurre, se non si è in cattiva fede, che la democrazia ed il pluralismo non vengono esercitati in questo ferreo sistema di potere, visto che pluralismo significa dare visibilità e pari opportunità a tutti i movimenti organizzati che rappresentano la società italiana.

Offrire un canale televisivo da autogestire a movimenti che abbiano più di mezzo milione di iscritti, tipo Sindacati, Coldiretti, Lega Ambiente, WWF, Acli, Lega delle cooperative, Arci, sarebbe un inizio di pluralismo. Si parlerebbe con persone vere e di problemi veri, in piena libertà e autogestione, e ciò sarebbe un potente fattore di aggregazione sociale e di visibilità di categorie dimenticate da un sistema televisivo teso a celebrare solo i belli e i vincenti o a disposizione della CASTA con i suoi rituali di finti dibattiti, finti litigi, linguaggi incomprensibili e inconcludenti.

Il contrappeso alle Tv private nazionali dovrebbe essere un vero servizio pubblico, senza partiti né preti, finanziato dal canone, senza pubblicità, che affida mezzi e frequenze ai cittadini organizzati, che si inventerebbero di sicuro un nuovo modo di comunicare e per la prima volta scoprirebbero che è bello partecipare e non fare i sudditi, spettatori.

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