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Cambogia: diritti umani sfioriti

Un matrimonio in Cambogia, spose bambine vendute. Diritti umani scritti sulla carta come per i poveri Uighuri e Hmong rispediti nei loro paesi. Senza difese.

Una strada è bloccata a Phnom Penh, c’è un matrimonio. Centinaia d’invitati mangiano zuppe varie, pesce, riso, carne, s’inciuccano, ridono, a volte litigano e finisce a botte. Comunque, alla fine, tutti ballano muovendosi in circolo e agitando le mani. Il tutto dura tre giorni e tre notti. In Cambogia il matrimonio è una grande festa, forse la più importante e costosa di tutta la vita.
 
Ed un grande affare per ristoratori, sarti, parrucchieri. Tant’è che lo Stato (Ministro del Lavoro) si è messo nel business ed aprirà una specie di centro per i matrimoni in grado d’ospitare 2500 persone, con immense tavolate su due piani. Uno esiste già, più piccolo, ma questo sarà uno spettacolo, promettono e, infatti, costa USD 1 milione. Il posto (Phnom Penh’s Meanchey district) e il nome (Modern 2 Centre, dalla strada National Road 2) non sono un granché ma il costo per invitato, in questi momenti di crisi, è di soli USD 17 tutto compreso.
 
Anche la gran setta dei parrucchieri cambogiani risorge nel periodo invernale (più popolare per i matrimoni) e acconcia in modi strabilianti i capelli, naturalmente splendidi, di spose ed invitati. Una potenza a Phnom Penh, tant’è che brigano per organizzare il campionato mondiale della categoria che quest’anno si tiene a Manila ed è gestito dalla Asia Pacific Hairdressers and Cosmetologist Association (APHCA). Nella foto è immortalata la campionessa nazionale.
 
La moglie arriva a casa dello sposo in una macchina simile a un albero di natale, vestiti con abiti eleganti lui, sgargianti lei. Monaci suonano i cimbali, fanno girare un po’ d’incenso, la sposa lava i piedi del marito, vengono tagliati i capelli come sacrificio per la buona riuscita del matrimonio. Monaci e oracoli decidono la data e ciò li rende ancor più simili ai matrimoni indiani, nepalesi, e di gran parte dell’Asia. Matrimoni arrangiati, spesso, dai parenti, ma non per questo riescono male. Si dice che circa il 30% delle spose incontra e parla con il marito solo il giorno del matrimonio. Sui giornali si legge spesso di suicidi di giovani innamorati che vedevano la loro storia bloccata dalle famiglie. Non è una cosa nuova perché i Khmer Rouge obbligavano le donne (si dice 250.000) a sposarsi in base a ragioni di partito, economiche, di ripopolamento. Come in tutta l’Asia accade che gli sposi siano giovanissimi, bambini. La dote, a volte, distrugge l’economia domestica della famiglia della sposa.
 
Sui matrimoni sono nati ogni tipo di business, tant’è che l’anno scorso il governo sospese i permessi alle donne cambogiane che volevano sposarsi con gli stranieri, preoccupato dal crescente numero di donne abbandonate e tornate in patria in miseria. La stessa International Organization for Migration (IOM) segnalava la gravità del problema. Si scoprì un vero e proprio business specie con la Corea del Sud, che fruttava qualche centinaio di dollari alla moglie, ma migliaia alle agenzie. Solo nel 2007, 1800 donne finirono in Corea, molte furono rispedite indietro (senza un soldo) dai mariti scontenti.
 
Ovviamente ci sono leggi, convenzioni internazionali, organizzazioni a protezione dei diritti umani che dovrebbero vigilare, controllare, reprimere gli abusi. Diritti dell’uomo, uno dei cavalli di battaglia (prima dei cambiamenti climatici) dell’industria dell’assistenza un po’ sfioriti in questa parte del mondo.
 
Pochi giorni fa 20 profughi Uighuri sono stati rimandati in Cina, dopo che avevano chiesto asilo politico a seguito della repressione nello Xinjiang, dello scorso luglio. L’UNCHR (organizzazione delle Nazioni Unite per i rifugiati) se n’è fregata altamente (o è esemplare nell’incapacità) e i venti poveretti finiranno in qualche gattabuia cinese (se va bene). Il governo cambogiano è stato ripagato con una serie d’accordi che faranno fluire ben USD 1,2 miliardi. Nell’ottobre 2008 l’UNHCR aveva dichiarato la Cambogia “paese modello” per aver siglato la convenzione sui rifugiati del 1951. Ricordiamo che qui le Nazioni Unite spendono qualche miliardo all’anno e dovrebbero, dunque, aver qualche potere.
 
Qui vicino, in Thailandia, dove aver sbattuto in mare 1000 Rohingya l’anno scorso, adesso stanno rispedendo in Laos 4.000 profughi Hmong (tante donne e bambini). Questa popolazone delle montagne del Laos (e Vietnam) è ancora in lotta per far valere i propri diritti. Questi sono i discendenti dei combattenti anti Pathet Lao (comunisti laotiani) che furono ingaggiati dalla CIA per combattere i guerriglieri vietnamiti, cambogiani e laotiani durante la guerra del Vietnam. Ben 300.000 lasciarono il Laos dopo il 1976, la metà di rifugiò in USA. Il Primo Ministro thailandese Abhsit (si racconta che voglia fare un colpo di stato) ha assicurato “these Hmong will have a better life”. Non preoccupiamoci, l’UNHCR vigila (negli hotels di Bangkok) tant’è che durante la deportazione (avvenuta senza giornalisti e con camions militari) ha “intervistato” alcuni profughi definendoli “people of concern” cioè a rischio di persecuzione. Il buon Abshit se ne è fregato.

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