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Stati Uniti ed economia nella storia

Nel 1900 la ricchezza degli Stati Uniti fu valutata 86 miliardi di dollari. Nel 1929 era salita a 361 miliardi di dollari.
 
Nel 1929 negli Usa c’era un’automobile ogni 5 abitanti. In Europa una ogni 84 abitanti.
Quel mercato potenziale attirò l’attenzione dei capitalisti americani che iniziarono ad investire nell’industria europea. La General Motors acquistò azioni della Adam Opel e la Ford iniziò a costruire stabilimenti in vari paesi europei.

Il maggiore generale Smedley D.Buttler ha così descritto la sua opera di custode di quegli interessi negli anni di massima espansione del capitalismo americano: "(...) ho trascorso la maggior parte del mio tempo a fare da gorilla per conto del grande capitale di Wall Street e dei banchieri. In breve, sono stato un gangster al servizio del capitalismo.Ho contribuito a rendere il Messico luogo sicuro per gli interessi petroliferi americani nel 1914. (...) ad instaurare ad Haiti e a Cuba un’atmosfera decente per i ragazzi della National City Bank incaricati della riscossione degli utili...Ho contribuito a purificare il Nicaragua per la banca internazionale Brown Brothers nel 1909-1912 (...)".

Nel 1929 il reddito nazionale prodotto fu di 81 miliardi di dollari. Nel 1932 fu di 40 miliardi di dollari.
Il totale delle retribuzioni delle occupazioni non agricole fu di circa 52 miliardi di dollari nel 1929. Nel 1932 fu di 30 miliardi di dollari.
Il totale del reddito agricolo nel ’29 fu di 12 miliardi di dollari Nel 1932 di 5.

Fatto 100 l’indice di occupazione nel triennio 1923-1925, nel 1929 questo era pari a 106. Scese a 66 nel 1932.
L’indice dei contratti di costruzione passò da un totale di 117 nel ’29 a 28 nel 1932.
Le esportazioni che ammontavano a 5241 milioni di dollari nel ’29, passarono a 1611 milioni nel ’32.

Il numero di corporations (banche escluse) nel 1929 ammontava a 300.000 unità.
200 di queste erano talmente grandi da battere tutte le altre messe insieme. In quell’anno le 200 resero il 56,8% degli interessi, pagarono il 55,4% dei dividendi,registrarono il 56,8% degli utili netti.
Nel 1933, nonostante la crisi, la fetta delle 200 corporations fu proporzionalmente più grande che nel 1929.
Il loro patrimonio complessivo ammontava a 98 miliardi di dollari.
A queste si univano le 50 che predominavano nel settore finanziario. Le relazioni tra il mondo della finanza e quello dell’industria manifatturiera erano strettamente connesse. Ed il controllo della parte finanziaria era molto forte in settori strategici ed ad alto valore aggiunto.
Ad esempio il gruppo Morgan-First National aveva rappresentanti nei consigli di amministrazione di General Electric, United States steel corporation, American telephone and telegraph company etc.

Le condizioni per una marcia senza ostacoli di quel capitalismo erano eccellenti, sia dal punto di vista politico interno che dalla forza che l’economia americana aveva fino ad allora espresso.
Cosa accadde e quale contraddizione si evidenziò in tutta la sua forza?

Cosa c’è di diverso ora?

Qui una analisi di Giorgio Paolucci sulla situazione oggi e sulle sue implicazioni internazionali.
 
Gli Usa, da potenza creditrice a potenza debitrice
 
Fino a tutti i primi anni 1970 del secolo scorso gli Usa hanno fondato il loro potere sulla forza del loro apparato industriale come dimostra l’attivo fatto registrare dalla bilancia dei pagamenti e dalla posizione netta attiva sull’estero, cioè dalla differenza fra le attività detenute dagli operatori statunitensi all’estero e quelle detenute dagli operatori stranieri negli Usa. A partire già dai primi anni cinquanta, e a un ritmo vertiginoso dai primi anni 1980, le posizioni, però, si sono invertite: il paese che per le sue esportazioni era il più grande creditore del mondo è diventato con le sue importazioni il più grande debitore del mondo.
 
A fine 2008 la bilancia dei pagamenti, che sostanzialmente rileva l’andamento del rapporto fra importazioni ed esportazioni, registra un deficit di circa 700 miliardi di dollari. Un andamento analogo ha subito anche il bilancio federale che, salvo qualche breve periodo come nella seconda metà degli anni 1990, risulta costantemente negativo. Dal 2000, l’ultimo anno in cui, grazie soprattutto al boom speculativo degli anni 1990, si chiuse con un attivo di circa 235 miliardi di dollari [2], si è passati a un disavanzo previsto per il 2006 di 423 miliardi di dollari. [3]
 

Non migliore è la posizione debitoria sia delle imprese sia dei privati. Sommati il debito delle imprese e quello dei privati ammontano a oltre 30 miliardi di dollari. Per finanziare questo gigantesco debito gli Usa importano qualcosa come oltre 3 miliardi di dollari al giorno assorbendo così più dell’80 per cento del risparmio mondiale.

Nessun paese al mondo potrebbe reggere un simile debito senza essere travolto dagli alti tassi di interesse che dovrebbe pagare per attrarre una massa così grandi di capitali dall’estero. Gli Usa, invece hanno continuato a ricevere capitali dall’estero anche con tassi di interesse prossimi allo zero. Solo negli ultimi due anni, nel tentativo di sgonfiare gradualmente la bolla speculativa che si è formata sul mercato immobiliare grazie anche al basso costo del denaro, la Federal Reserve ha portato i tassi al 5,25%, circa un punto più alti di quelli fissati dalla Bce per l’area dell’euro, area non gravata però da un simile posizione debitoria e con significativi attivi nella bilancia commerciale. Peraltro, la situazione debitoria degli Usa è molto più grave di quanto indichino i dati ufficiali viziati da un sistema di calcolo che in buona parte occulta le poste in bilancio già impegnate per i dipendenti pubblici e per i programmi pluriennali di assistenza sanitaria e previdenziale. Contabilizzare in modo corretto queste poste nel bilancio americano significherebbe, come ci informa il già citato Dolfini:

… portare il debito pubblico ad un livello pari a circa cinque volte il pil. Secondo i calcoli del Congressional Budget Office (Cbo), 4500 miliardi di dollari sono impegnati per la prima ragione [dipendenti pubblici — ndr], 38 mila sono il valore attuale degli impegni di assistenza sanitaria, 7 mila miliardi riguardano la previdenza. Il Cbo ha anche fatto una simulazione finalizzata a stimare le risorse necessarie per coprire l’insieme di questi debiti: ipotizzando una crescita annua del 3% del pil dal 2005 in poi, sarebbe necessario aumentare la pressione fiscale del 6,5% in maniera permanente. [4]

Come è noto, invece, nei programmi di Bush è previsto di confermare i tagli fiscali varati durante la precedente legislatura. Se ne evince con tutta evidenza che il sistema di finanziamento del debito Usa ormai prescinde dal livello delle risorse interne e si basa quasi esclusivamente sul flusso di capitali esteri in esso investiti nonostante la relativa bassa redditività dei titoli che questo debito rappresentano.

Ciò è reso possibile grazie al fatto che il dollaro, a partire dagli anni ’40 del secolo scorso svolge, grazie al fatto che gli Usa sono stati fino a tutti gli ‘70 la prima potenza economica del mondo, il ruolo di moneta di riserva e di mezzo di pagamento internazionale per eccellenza. In dollari infatti sono tuttora denominate le transazioni creditorie e debitorie internazionali, i crediti e i debiti verso l’estero delle banche centrali e la gran parte delle loro riserve, la quasi totalità dei prezzi delle materie prime e in particolare quello del petrolio.

Ma nel secolo appena iniziato i rapporti di causalità si sono capovolti. Oggi gli Stati Uniti rappresentano la prima economia del mondo, nonostante il loro deficit e il loro debito verso l’estero, solo perché il dollaro rimane la moneta di riserva… l’America con le sue importazioni è diventato il più grande debitore del mondo e lo status del dollaro come moneta di riserva svolge una funzione paradossale: quella di consentire ai ricchi americani di venire finanziati dai poveri cinesi e indiani. [5]

In poche parole mentre in passato era la potenza dell’economia americana ad assicurare al dollaro il suo status di moneta privilegiata ora è il contrario: è lo status del dollaro che consente agli Usa di drenare risorse dall’estero ed essere così ancora la prima potenza del mondo. In ultima istanza il fulcro della odierna potenza statunitense è dato dalla dittatura del passato sul presente e che perciò non può prescindere dall’esercizio della forza.

La crescita della spesa militare
 
 
Dire forza significa dire soldati, armi, in una: spesa militare. Nel decennio che va dal 1980 al 1990, cioè negli anni cui si è verificata l’inversione dei rapporti di causalità a cui prima si faceva riferimento, le spese per la difesa del solo capitolo delle spese discrezionali, cioè quelle approvate dal Congresso di volta in volta e in cui , come vedremo meglio in seguito, si annida circa il 50 per cento delle spesa militare complessiva, sono raddoppiate passando da circa 250 a 400 miliardi di dollari, segno evidente che al venire meno della potenza economica ha fatto da contraltare il maggior impegno militare. [6]
 
E da allora questo trend non ha subito inversioni o rallentamenti di sorta.
 

Per l’anno fiscale 2007, i fondi assegnati direttamente al Pentagono ammontano a 439,3 miliardi di dollari. [7]

Ma, ci avverte ancora Dolfini:

Per avere un’idea corretta delle spese militari è necessario fare una ricognizione dell’intero bilancio federale. Infatti le spese militari in senso stretto — quelle iscritte nel bilancio del Pentagono — rappresentano in realtà il 50% del totale delle spese militari, dando così una versione più edulcorata della realtà. Secondo i calcoli dello storico dell’economia Robert Higgs (gennaio 2004), a queste bisogna aggiungere le poste di “natura militare” inscritte nei bilanci degli altri dipartimenti… Nell’anno fiscale 2002 la somma di tutte queste voci portava il totale degli esborsi defense related a poco meno di 600 miliardi di dollari contro i 35 miliardi assegnati direttamente al Pentagono. Mantenendo la stessa proporzione e considerando le poste straordinarie impegnante per le guerre in Iraq e Afghanistan, nell’anno finanziario 2004 i 400 miliardi di dollari circa iscritti nel bilancio del Dipartimento della Difesa sono diventati circa 750 miliardi di dollari, un livello pari a circa il 180% dell’intero disavanzo federale e a poco più del 110% del disavanzo con l’estero. [8]

Facendo questa stessa ricognizione per l’anno fiscale 2007, i 439,3 miliardi assegnati al Pentagono appaiono veramente come la famosa goccia nel mare. A essi, infatti, bisogna aggiungere altri “50 miliardi quale fondo…

di emergenza per la guerra globale al terrore” che unito ad altre voci porta la spesa totale ancora solo del Dipartimento della difesa a 504,8 miliardi di dollari. Siamo già a metà dell’intera spesa militare mondiale. [9]

Se poi a questa si aggiungono:

… gli oltre 10 miliardi di dollari per il mantenimento e l’ammodernamento dell’arsenale nucleare (iscritti nel bilancio del Dipartimento dell’energia), più altre spese di carattere militare: circa 45 miliardi (ufficiosi) per i servizi segreti, sempre più impegnati “nella guerra globale al terrore”; 38,3 miliardi per i militari a risposo, iscritti nel bilancio del Dipartimento per gli affari dei veterani: 43,5per il Dipartimento di sicurezza della patria si superano così i 640 miliardi di dollari. Ma non è finita. I 50 miliardi di dollari del “fondo di emergenza”, iscritti nel bilancio del Pentagono, rappresentano solo una piccola parte della spesa complessiva per la “guerra globale al terrore”. Finora solo la guerra in Iraq e Afghanistan è costata oltre 300 miliardi di dollari. Per coprire tale spesa si stanziano “fondi addizionali”, che si aggiungono al budget del Dipartimento della difesa. Nell’anno fiscale 2006 vengono stanziati a tale scopo 120 miliardi. Si prevede quindi che almeno altrettanto dovrà essere stanziato sotto forma di “fondi addizionali” nel 2007. I 640 miliardi di spesa militari saliranno così ad almeno 760 miliardi. [10]

E supera i 1000 miliardi di dollari se si tengono in conto anche i fondi stanziati per la “ricostruzione dell’Iraq”, quelli per il pagamento degli interessi relativi ai fondi stanziati e così via. D’altra parte è impensabile un processo di accumulazione del capitale, come è ormai divenuto quello statunitense, basato soprattutto sull’appropriazione parassitaria di plusvalore, senza il supporto della forza e di un apparato militare capace di esercitarla. Infatti, il signoraggio del dollaro, che ne è il presupposto, richiede che tutto ciò che è oggetto di scambio internazionale e che abbia una certa rilevanza nella formazione dei parametri macroeconomici della economia mondiale, sia denominato in dollari anche se è venuto meno il primato economico degli Usa. Il controllo di tutte le fonti di produzione, delle vie di trasporto del petrolio e del suo mercato come di tutte le principali materie prime nonché dei mercati finanziari, è dunque una condizione inderogabile sia per la conservazione del primato imperialistico statunitense sia per la salvaguardia del loro apparato economico-finanziario. Infatti:

Se prima il paese debitore — [oggi gli Usa se non fossero la prima potenza imperialistica — ndr] doveva alzare i tassi di interesse per attrarre capitali allo scopo di finanziare il disavanzo di bdp [della bilancia dei pagamenti — ndr], adesso è lo stesso disavanzo di bdp a generare i dollari necessari al proprio finanziamento, consentendo all’America di tenere bassi i tassi di interesse grazie al continuo acquisto di titoli del Tesoro da parte dei paesi “altri” (il reinvestimento del surplus di dollari in attività produttive è escluso: all’Opec che nel 1973 era pronta ad investire i petrodollari in aziende americane, venne detto, senza mezzi termini, che una simile azione “sarebbe stata considerata alla stregua di una dichiarazione di guerra”). [11]

Si costringe il mondo intero ad acquistare dollari per poter comprare petrolio ricevendone in cambio merci e/o valuta con cui pagare le proprie importazioni, ma si impedisce a chi accumula all’estero, per questa stessa ragione, dollari di trasformarli in attività produttive statunitensi imponendogli l’acquisto di altra carta cioè di buoni del Tesoro. In considerazione di ciò l’antropologo statunitense David Harvey, riferendosi al processo di accumulazione del capitale negli Usa, parla giustamente di “accumulazione per espropriazione”. [12]

Fatto tanto importante che:

Se questa capacità del dollaro scomparisse dall’oggi al domani i consumi in America sarebbero limitati alla produzione interna e i finanziamenti sarebbero limitati al risparmio nazionale [che è inesistente — ndr]: ne seguirebbe una terribile recessione del tipo di quella che ha colpito la Russia nell’agosto del 1998. [13]

Signoraggio del dollaro e spesa militare costituiscono pertanto un binomio inscindibile e insostituibile, pena il crollo immediato dell’impero.


Debito e Impero — art. cit.

[5] F. Arcucci — Per il paradosso del dollaro i poveri finanziano i ricchi — La Repubblica — Affari & Finanza del 9/5/2005 — Per un ulteriore approfondimento delle ragioni per cui i rapporti di causalità — come li chiama Arcucci — fra gli Usa e il mondo si siano capovolti vedi anche L’imperialismo e la guerra permanente — Strumenti di Bc n. 7 — Ed. Prometeo.

[6] Limes -Fonte BushBudget Charts — cit.

[7] F. Cantarelli — Il Bilancio Usa, solo cannoni — il Manifesto dell’8 febbraio 2006.

[8] M. Dolfini — art. cit.

[9] M. Dinucci — Noi dobbiamo prevalere — Il Manifesto dell’8 febbraio 2006.

[10] Ibid.

[11] M. Dolfino — art. Cit. — pag 34 Vedi D. Harley — La Guerra Perpetua — Il Saggiatore — 2006.

[12] Vedi D. Harley — La guerra perpetua — Il Saggiatore — 2006.

[13] F. Arcucci — art. Cit.

[14] Da: Il Bilancio Usa, solo cannoni. Art. cit.

[15] Ibid.

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