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Insipienza 6: la fondatezza delle prove nel processo penale

Dal dizionario della lingua italiana De Mauro: insipienza = ignoranza, ottusità di mente, stoltezza, stupidità.

Continua nell’aula della Corte d’Assise di Perugia il processo ad Amanda Knox e a Raffaele Sollecito per l’omicidio di Meredith Kercher. Curt Knox, padre di Amanda, sostiene “Non capisco come, in base alle prove raccolte, sia possibile ipotizzare un coinvolgimento di Amanda nella morte di Meredith”. I giornali di Seattle, per converso, sono dell’idea che la nostra giustizia condanni senza prove fondate. In effetti, da quelle parti, le prove sono una cosa seria: Alphonse Gabriel Capone, criminale italo-americano di chiara fama, in quel di Chicago, in assenza di prove certe sulla sua vera attività, finì in galera solo per reati fiscali.
 
La “cartina di tornasole” sul funzionamento del nostro sistema giudiziario è il processo ad Enzo Tortora; proviamo a vedere cosa accadde allora. Durante la fase inquirente il presentatore televisivo subisce tre interrogatori. Nel primo, in data 23 giugno 1983, nulla gli viene contestato in ordine all’inserimento del suo nominativo in una rubrica telefonica del camorrista Giuseppe Puca. La cosa gli viene contestata nel secondo interrogatorio in data 29 settembre 1983, ma il corpo del reato non compare: "Ah, non l’ho mica portata", esclama il giudice. Il presentatore dichiara che il suo numero telefonico è a disposizione di tutti sull’elenco telefonico. Di questa prova non si parla nel terzo ed ultimo interrogatorio del 9 marzo 1984: se ne riparlerà nel processo d’appello dopo che, in un altro procedimento contro la camorra, Giuseppe Puca ha dichiarato al Presidente del Tribunale che l’agendina non è la sua, ma di Assunta Catone; ed Assunta Catone ha dichiarato che il nome scritto era quello di tal Enzo Tortona, e non di Enzo Tortora: per accertarsene bastava farlo, il numero telefonico. A dire il vero aveva già cercato di dirlo anche al giudice Fontana del processo Tortora, causandogli, però, una crisi di itterizia, perché vedeva così crollare l’impianto accusatorio. La signora Catone si era beccata anche una bella imputazione da art. 416bis.
 
Nella sua sentenza assolutoria del processo d’appello, il giudice Morello scriverà: "La valutazione delle prove deve essere oggettiva perchè interpretare non significa aggiungere qualcosa. Il libero convincimento del giudice non può servire a colmare vuoti probatori".
 
Ma, direte voi, dopo il caso Tortora abbiamo imparato e l’amministrazione della giustizia è stata radicalmente riformata. Ed ecco l’insipienza. Perché non è vero. La prova? Ne addurrò due; e spero che le riterrete fondate, non come quelle dell’agendina di Giuseppe Puca.
 
La prima riguarda il processo ad Alberto Stasi, imputato per l’omicidio di Chiara Poggi, ed in particolare le prove eseguite sul suo computer per verificare se egli lo stesse usando al momento del delitto (dalle nostre parti, non è tanto l’accusa a dover provare che l’imputato è colpevole, quanto piuttosto quest’ultimo a dover provare di essere innocente). I periti nominati dal GUP Stefano Vitelli, l’ingegner Roberto Porta e il dottor Daniele Occhetti, hanno in pratica confermato l’alibi di Stasi, che aveva sempre sostenuto che nelle ore in cui Chiara sarebbe stata uccisa, aveva lavorato al computer alla sua tesi. Durante la fase istruttoria i periti avevano accertato l’esatto contrario.
 
La seconda riguarda un procedimento della Procura di Lecco a carico di Carmelo Furnari e Giovanni Pirinolli, consulenti tecnici d’ufficio in un altro procedimento della Procura di Reggio Calabria, in cui hanno eseguito la trascrizione di una registrazione ambientale. Il perito della Procura di Lecco, nel confrontare il dato di rilevazione con l’estratta trascrizione, si è trovato dinanzi a tante e tali irregolarità, da coniare il termine “miraggio acustico” per cercare di capirne le cause. In sostanza i periti/inquisiti hanno preso fischi per fiaschi e, se continuavano, potevano arrivare a trascrivere tutto ed il contrario di tutto. Se non fosse una cosa seria, la si potrebbe dire presa da una gag di Zelig.
 
A questo punto, sorge il dubbio che, nel nostro sistema giudiziario, vi sia qualcosa di malato nel raccogliere e nel valutare le prove a carico dell’imputato, nel consentire a quest’ultimo il giusto contraddittorio, come anche nel rapporto fra i magistrati e i loro consulenti. La sensazione, molto brutta, è che prove e periti servano solamente a giustificare quello che è stato già deciso per altra via; i giornali di Seattle, forse, non hanno tutti i torti.

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