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 Home page > Attualità > Cultura > (In)ter(per)culturando: attorno a Philippe Forest

(In)ter(per)culturando: attorno a Philippe Forest

“Non avrei mai scritto. Non avevo questo sogno. Lettore? Sì. Autore? No. Amavo testi celebri o singolari, provavo la sensazione banale che parlassero a me, che la mia vita fosse intessuta dai loro segni, che da sempre stessi respirando entro le loro pagine. […]… un libro dovrebbe esistere solo se si fa malgrado il suo autore, a dispetto suo, contro di lui, obbligandolo a toccare il punto della vita dove il suo essere irrimediabilmente si sfa. Niente vale se non quella verità lì”.
(Philippe Forest – Estratto da la prefazione di Elisabetta Rasy a ‘Tutti i bambini tranne uno’, Edizione Bur ottobre 2008, prima edizione italiana Alet 2005, pubblicazione originale Gallimard éditions, 1997)
 
Ho fatto di mia figlia un essere di carta. Ogni sera ho trasformato la mia scrivania in un teatro d’inchiostro dove ancora si recitavano le sue avventure inventate. Il punto finale è messo. Ho riposto il libro in mezzo agli altri. Le parole non danno nessun soccorso. (pag.344 – l’ultima – Tutti i bambini tranne uno’).
 
Philippe Forest nasce a Parigi nel 1962. Insegna alla Sorbona, nel Regno Unito e a Nantes (dove attualmente si occupa di letteratura comparata). Mente acuta, intensa, lettore e analizzatore fa della letteratura un’intima passione. Scrive numerosi saggi (attualmente in Italia è rintracciabile solo ‘Il romanzo, l’Io’, Scuola Holden/Bur). Poi. La primavera del 1996 morì sua figlia, di quattro anni, dopo poco più d’un anno di terapie e tentativi per combatterne il cancro osseo.
 
La malattia poi la morte di Pauline strappano a Forest, Philippe, ovvero l’uomo che era stato fino a quel momento per restituirgli un Philippe-narratore. Ma ogni storia, ogni libro uscito da mente, occhi, braccia e dita del Philippe Forest rimasto (o diventato, credo solo lui potrebbe ragionevolmente affermarlo), si dirama dal corpo della figlia, dal suo ricordo, da ciò che è stato, dalle memoria dunque e dagli eventi che si sono susseguiti prima-durante-dopo.
 
Tutti i bambini tranne uno, ancora oggi il suo romanzo più noto, intenso, destabilizzante, è la registrazione di quel morire bambino. Per tutta la notte (Alet, 2006) ripercorre il tempo immediatamente adiacente alla morte di Pauline, per chi è rimasto, Philippe e la moglie Alice, annusando le sospensioni che li ha avvolti. Sarinagara (Alet, 2008) insiste nel viaggio senza Pauline, in un viaggio tutt’altro che scontato, tra uomini lontani e vicini, che dal Giappone hanno richiamato il Forest essere umano-padre, lo hanno attirato verso le loro storie formando una sorta di puzzle atipico tra esistenze affini. Recentemente è stato pubblicato in Italia, L’amore nuovo (Alet, 2009) e di nuovo il Forest narratore apre le sue carni, narra di come l’amore di coppia è tornato in un vivere che comunque erra, cerca, mai dimenticando la perdita, il dolore.
 
Che Philippe Forest sia ciò che sia per ciò che ha vissuto e vive, è innegabile.
Che la sue storie parlino in modo diretto e inequivocabile di lui, è altrettanto innegabile.
Come queste storie, i libri, siano considerabili, catalogabili è trattazione delicata, sfuggente.
Autobiografia? Autofiction? Sono i termini più dibattuti anche in Italia (e per numerosi autori contemporanei, oltre tutto).
Nel 2001 lo stesso Forest tratta di questi labili confini, in un saggio e distingue tre specifiche forme narrative:
 
Nell’avvolgente letteratura dell’Io regna una grande confusione che impedisce di cogliere i progetti talora antagonisti celati sotto gli enunciati di carattere autobiografico. Distinguerei ego-letteratura, autofiction e romanzo dell’Io, considerandoli tre stadi del processo di spersonalizzazione nel quale il reale si fa sentire con sempre maggiore forza all’interno della finzione narrativa. […] L’ego-letteratura – per la quale l’arte imita la vita – si dà l’Io come oggetto. Lo assume alla stregua di una “realtà” che il racconto traduce. Si pone sotto il segno dello “stesso” e fa del “vissuto” l’origine piena di ogni significato. L’autofiction (quando si sottrae alle illusioni dell’ego-letteratura e constata che la vita imita l’arte) si dà ugualmente l’Io come oggetto ma scopre in esso una ‘finzione’ che il romanzo costruisce. Per l’autofiction, lo “stesso” è quell’ “altro” che ha una consistenza puramente immaginaria e consacra la letteratura al “virtuale” come orizzonte vuoto di ogni significato. L’eterografia sostituisce all’espressione dell’Io (oggetto dell’ego-letteratura e dell’autofiction) una scrittura dell’Io con la quale il soggetto “ritorna” tramite un’ “esperienza” del “reale” come “impossibile”.
(pag.40-42, Il romanzo, l’Io)
 
In particolare sull’eterografia in un’intervista di Carlo Mazza Galanti, pubblicata il 5 novembre 2009 su Minima et Moralia, Forest ne chiarisce ulteriormente il senso (Fonte integrale):
 
In un suo saggio lei parla di «eterografia», si riferisce all’uso della scrittura altrui, all’uso di altri autori e testi per palare di sé come ha fatto in Tutti i bambini tranne uno e, in modo più sistematico, in Sarinagara?
Non è esattamente questo a cui pensavo. Eterografia per me è la scrittura del reale in quanto il reale è radicalmente altro. Era soprattutto un modo di oppormi all’autofinzione, perchè nell’autofinzione, com’è praticata in Francia, c’è qualcosa di abbastanza narcisistico. La costruzione da parte di un autore di un personaggio mi sembra la forma meno interessante della scrittura del sé. Al contrario, e per questo anche mi interesso alla scrittura giapponese, ho sempre pensato che la letteratura avesse piuttosto a che fare con la decostruzione dell’identità, la dissoluzione del sé, e quindi parlare di eterografia è un modo di mostrare che l’orizzonte della scrittura autobiografica non è il sé ma al contrario la scomparsa del sé, nel rapporto col reale e con l’impossibile.
 
Forest impasta ‘qualcosa’ che pare inafferrabile e vicino allo stesso tempo. E’ come se giocasse a sono io-non sono io o meglio: scrivo del mio vissuto ma non è il mio vissuto perché il reale è impossibile se è il ‘mio’ reale. Dialettica, si potrebbe ribattere. In tutta onestà non lo so. C’è qualcosa nei suoi libri, qualcosa che attira, coinvolge, stupisce. Ed è qualcosa di intimo e universale, qualcosa che tocca nella distanza.
Perché la morte della figlia di Philippe Forest dovrebbe interessare chi legge i suoi libri?
E’ un’ottima domanda, la stessa – credo – che il lettore si fa ogni volta che si avvicina a una nuova storia: perché dovrebbe interessarmi ciò che ha da dire Tizio o Caio piuttosto che la mia, di storia o quella del mio vicino?
A leggere Forest pare essere la dimensione del ‘Sé’ la tangibile differenza. Più la storia è solo dell’ ‘Io’ narratore, più la narrazione è di un qualcuno che diventa ogni figura possibile (autore, lettore, ascoltatore, vivente che ha vissuto, interprete, traduttore, persona e personaggio) minore è l’impatto verso l’esterno, verso gli altri che di quel ‘Sé’ con ogni probabilità neanche vogliono sapere nulla.
Eppure di reale si tratta. Di un-reale insomma. Che da un Sé parte per poi virare nei percorsi fino a negare quella stessa partenza capovolgendola o comunque mescolandola.
Questo sembra voler incidere la scrittura di Forest.
Che non nega di scrivere sempre e comunque di Pauline, o attorno a lei. Della perdita. Del lutto. Delle riprese, le prove, i tentativi falliti e quelli timidamente sostenuti per continuare a essere e vivere una cosa che può non chiamarsi ‘vita’ così come la sentiva prima, ma che si chiama, ha nominazioni e tanto basta.
 
Philippe Forest è imprendibile. La sua essenza narrativa, la lingua, gli incastri tra saggismi e volontà di ‘raccontare storie’ mescolano concetti, li confondono. Il suo essere molte persone (individuo qualunque, narratore, personaggio, studioso, analizzatore…) cercando continuamente l’inafferrabile; tutto questo lo rende complesso, affascinante e intenso. Forse è dialettica, lo ripeto, forse è illusione d’un bilico che è già stato misurato, decodificato, catalogato e rinchiuso nei database impolverati dell’editoria. Forse.
Resta un fatto però.
Leggere Forest è esperienza destabilizzante. Legata alle tematiche, certo, con evidenza in Tutti i bambini tranne uno, ma non solo.
 
Soffermiamoci ad esempio su ‘Sarinagara’.
Il libro si compone di tre parti principali, Forest scrive di tre creativi: un poeta, un narratore e un fotografo. Tutti e tre giapponesi non contemporanei ma che si sono susseguiti nella storia del paese. Kobayashi Issa (1763-1827), Natsume Soseki (1867-1916) e Yamahata Yosuke (1917-1966) [Alcune informazioni minimali sugli artisti nei link in fondo- n.d.r.]. Tre persone diverse, unite dall’arte, le creatività che divorano, rendono liberi e soli. E tutti e tre colpiti dalle perdite di figli.
Tra queste parti, dove il Forrest saggista, conoscitore, errante esploratore, in capitoli brevi e intensi tratteggia persone, leggende, sensi del loro vivere e fare arte (sia essa legata alle parole o le immagini); tra queste parti si insinua il Forrest narratore che torna a recuperare brandelli suoi, senza negarlo (che sono suoi) e unisce le storie. Che in realtà non sono tre bensì quattro (comprendendo anche quella del narratore ovunque presente) oppure semplicemente la storia è una, ampliata, dai contorni larghi e le maglie aperte, dilatate. Una storia che è quella di chi non ha ceduto alle rigide imposizioni sociali, ha viaggiato, errato tra dolori, miserie, paure, fatiche. Una storia che conosce le perdite più devastanti, ma recupera ciò che vivendo resta, i luoghi, le persone, gli egoismi delle passioni, dei talenti tutti, delle affezioni anche solitarie.
 
E’ un libro atipico, un mosaico che si compone di pezzi enormi, macroscopici accanto a briciole all’apparenza inutili, da contorno che invece chiudono arricchiscono di sensi e solidificano le superfici del mosaico stesso.
La voce del narratore, l’impronta di Forest acquista dunque spessori decisivi quando verso la fine motiva il senso di un libro non libro, saggio non saggio. Un senso legato ai viaggi che ha fatto con sua moglie Alice. Un viaggio in particolare a Kobe dove la sensazione di è stata déjà-vu talmente devastante da imporgli frenate, riflessioni. Fino al collegamento decisivo: collegamento intimo narrativizzato che ancora – sempre – riporta nella vita di carta Pauline, per mostrare anche al lettore che l’errare, il virare tra altre vite e altre storie è un non senso tra i sensi generali delle cose.
 
E’, come tutti gli scritti di Forest, un libro che parla anche di scrittura, dello scrivere e degli scrittori o di chi si definisce tale. Forest non si nega consapevolezze. Non da risposte ma lancia ami. Non pretende assolutismi ma si apre al lettore svelando opinioni, esperienze, o meglio: narrando ciò che sembrano essere esperienze. Quanto di reale ci sia tra le pagine, e quanto di impastato con lingua, mente, intrecci e capacità, non è dato da sapere con certezza. E non deve. Philippe Forest parte sempre e comunque dal suo Sé, da ciò che è, che gli è successo, che ha visto, provato, toccato, accolto. Da lì, da quel primo punto di partenza, la narrazione diventa altro, si muove, affonda annegando certezze.
 
Che cosa dice la poesia? Dice il ricominciare perpetuo del tempo – niente altro –, il tempo che strappa e disfa ma che intanto apre nello spazio soffocante del mondo una breccia in cui s’insinua, nel momento più nero della disperazione, il significato possibile di una vita nuova. […]… un unico nulla ci attende tutti, la carne amata ritornerà alla terra e l’unico sapere che conta insegna all’uomo l’inflessibile necessità che trasforma in ceneri fredde tutto quanto egli ha amato. […] Sì, c’è il lungo e interminabile dolore di vivere, la faticosa routine del corpo che lascia passare i giorni su di sé, la tortura del tempo e il suo lento lavorio spaventoso, tutti gli affetti più veri distrutti uno a uno, la sconvolgente solitudine sul versante più buio della notte aperta e poi, nella luce verticale di un mattini indifferente, il corpo amato disteso e senza vita di una bambina. Nessuno può ignorare tutto questo. Eppure, l’ultima parola non è del tutto detta. […]
Tutto è niente, certo. Ma Issa aggiunge:
eppure (pag. 88-89, da notare che ‘Sarinagara’ significa per l’appunto ‘Eppure’)
 
Non c’è niente di più grottesco di uno scrittore che abbia l’aria di uno scrittore e che spinge il ridicolo fino ad andarne fiero. La tradizionale professione di fede nevrotica del pessimo romanziere, la confessione del poeta scadente che assolutamente non può fare a meno di scrivere, è indispensabile al suo equilibrio, alla sua sopravvivenza… Io mi attengo al questo principio: non fidarsi mai di uno scrittore che sarebbe stato incapace di essere anche chirurgo, magistrato, pilota di linea, se si fossero presentate le circostanze, non sarebbe stato in grado di diventarlo.
(pag. 111-112)
 
L’arte del romanzo non comporta promesse di illuminazione. Nel caso poi che contenga una promessa di questo tipo, è solo per rivelare quanto sia necessariamente ingannevole. Non esistono soluzione all’enigma della vita. Soseki, proprio come Kafka – di cui è contemporaneo -, abbandona i suoi personaggi in una locanda perduta in mezzo al nulla, teatro frivolo di una storia di seduzione che non vuol dire altro che se stessa.
(pag.167)
 
Ma Yamahata ha sempre detto che tra le rovine di Nagasaki lui non aveva provato nulla; nessuna pietà, nessuna emozione, il funzionamento freddo di tutte le sue facoltà mentali, la più rigorosa insensibilità davanti alla sorte insostenibile cui gli altri si trovavano consegnati – ma che stranamente sembravano sopportare con la stessa indifferenza. E solo più tardi sono venute la sofferenza e la vergogna. […] Le parole si sono staccate dalle cose. Le hanno lasciate sole. E loro se ne stanno là, inutili, come relitti abbandonati, senza che niente permetta di capire cosa fossero prima. Tutto ciò che il testimone vede gli sembra circonfuso di un’inesorabile sensazione di stranezza. E quella sensazione fa crescere in lui, di colpo, un sentimento cui nessuno aveva pensato di dare un nome fino ad allora, simile insieme alla gioia e alla tristezza: l’angoscia in fondo futile di vedere il mondo restituito al niente, di capire improvvisamente che un disastro senza ritorno ha aperto nella carne delle cose uno strappo da cui sorge, come da un nuovo orizzonte, un sole destinato a illuminare l’inutile libertà della vita.
(pag. 228-229)
 
 
Alcune informazioni da wikipedia: Kobayashi Issa, Soseki Natsume.
Da Blogosfere: Yosuke Yamahata.

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