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Il premio nobel dato a zio Tom

Il premio nobel per la pace lo hanno dato alla parodia dello zio Tom?

Qualche giorno fa abbiamo avuto a che fare con un tizio che parlava di guerra e pace riuscendo a distinguere le guerre giuste e le guerre ingiuste.
Questo tizio ha quello che si definisce "il fisico giusto per interpretare il ruolo".
E’ nero (negro per i suoi detrattori razzisti), non si capisce se sia anche musulmano ed arriva dalla gavetta (così dicono).
 
 
Criticare lui, liberal e democratico, è un po’ come sparare sulla croce rossa.
Lo hanno celebrato per il suo discorso "imbarazzato"; mentre ritirava il Nobel per la pace scorrevano le immagini dell’ennesimo massacro di civili in Afghanistan fatto "per errore".
Nel raccontarci quanto sia faticoso promuovere guerre giuste non ci ha pero’ detto se quelle guerre è giusto giustificarle con la menzogna.
 
Ci viene in mente l’Irak, o l’intervento a Panama oppure quello dei Contras contro i Sandinisti quando un suo predecessore usava gli stessi argomenti che poi Bush usò per giustificare la guerra contro Saddam.
Questo solo per stare a cose che conosce perfettamente.

Se una guerra si fonda sulla menzogna è difficile che sia giusta.
Forse è giustificata la guerra che si fa per reagire quando ti attaccano. Da questo punto di vista l’unica guerra giusta che mi viene in mente è quella dei palestinesi. Ma sappiamo che quella non conta.
Ve lo immaginate uno di colore e liberal come lui che dice ad un sionista israeliano, che usa ancora a giustificazione delle sue azioni in Palestina il tallone di Hitler nei suoi confronti, di togliersi dai coglioni da territori che non gli appartengono sennò gli farà una guerra giusta?

Io non me lo vedo. Penso solo che in molti casi è meglio tacere.
Sarebbe come dire che è giusta la guerra di resistenza, il terrorismo. Che era giustificata la bomba algerina in un bistrò parigino o il kamikaze su un pulman in Israele. Un discorso complicato quando si inizia a cercare il pelo nell’uovo.
Mi consolo proponendo il dibattito che si aprì sull’uso dello zio Tom, negli anni 60, nella comunità afroamericana e quello che pensava Angela Davis della politica statunitense sul Vietnam.
Quest’ultima è una "niger" che all’establishment bianco non piaceva per nulla. Mi chiedo il perché.


La condizione razziale ad uso e consumo
fonte: WWW.PARODOS.IT
 
La capanna dello zio Tom di Harriet Beecher Stowe entrò nella storia come il più grande bestseller dell’Ottocento. Malgrado la brutalità dello schiavismo americano fosse narrata attraverso uno stile melodrammatico, il libro costituì un grande atto di accusa contro la sottomissione dei neri in America.
Il movimento di protesta afroamericano degli anni Sessanta si schierò contro il romanzo, poiché esso conteneva accenni all’inferiorità razziale dei neri. Tuttavia, il romanzo della Stowe costituì e costituisce ancora oggi un documento per comprendere le dinamiche razziali negli Stati Uniti dell’Ottocento.

«Così lei è la piccola donna il cui libro ha dato inizio a questa grande guerra», le disse il presidente Lincoln ricevendola alla Casa Bianca nel 1862. E anche se quel «piccola donna» non deve esserle sembrato un gran complimento, la guerra civile americana che Harriet Beecher Stowe aveva contribuito a fomentare con La capanna dello zio Tom era stata senza dubbio grande. Almeno quanto l’impatto del suo romanzo abolizionista sulle coscienze di chi l’aveva combattuta.
 
Uncle Tom’s cabin è stato il più grande bestseller dell’Ottocento non solo in America ma in tutto il mondo, secondo solo alla Bibbia con due milioni di copie vendute e chissà quanti miliardi di lacrime versate sul sacrificio del nobile schiavo picchiato a morte dal più vile dei padroni. Ma è stato anche un clamoroso esempio di romanzo politico, che ha usato gli strumenti del melodramma per protestare contro una legge del 1850 che obbligava tutti i cittadini americani, anche quelli del Nord non schiavista, a denunciare gli schiavi fuggiaschi.
 
Dopodiché, abolita la schiavitù, è stato osannato, insegnato, ammirato [...] e poi, negli ultimi sessant’anni, ridimensionato, deriso e vilipeso. Nel 1949 il grande romanziere nero James Baldwin lo ha demolito con un saggio intitolato Everybody’s protest novel. Negli anni Sessanta il Black Power ha trasformato «Zio Tom» in un insulto - che Mohammed Alì usava sul ring per esasperare i suoi sfidanti di colore.
 
E ora il più autorevole intellettuale nero americano, Henry Louis Gates Jr, con l’autorità della sua cattedra di «African-American studies» ad Harvard [...] riabilita questo schiavo incline al perdono e «ansioso di compiacere i bianchi», lo spoglia del suo stereotipo negativo, e provocatoriamente rilancia il romanzo di Harriet Beecher Stowe con lo smalto di una grande edizione annotata (Norton) [...].
 
L’obiettivo di Gates è quello di riconoscere a La capanna dello zio Tom il ruolo di documento centrale nella comprensione dei rapporti di razza in America, soprattutto nelle loro implicazioni morali e politiche, e di restituirgli la sua dignità letteraria, con buona pace di George Orwell che lo aveva chiamato «un esempio supremo di buon cattivo libro», anche se «profondamente commovente e veritiero».
 
La storia è quella di uno schiavo venduto da un padrone di buon cuore che si trova in difficoltà finanziarie. Così Tom è costretto a separarsi dalla sua famiglia per seguire un mercante di schiavi che lo venderà al padre di Eva, una bambina bionda che si affeziona a lui moltissimo. Ma Eva muore, suo padre anche, i loro schiavi vengono venduti e Tom cade nelle mani dell’odioso Simon Legree che gli impone di maltrattare gli altri schiavi della sua piantagione. Sostenuto dalla fede cristiana, Tom rifiuta di trasformarsi in un aguzzino e Simon Legree si vendica facendolo picchiare a morte. Le ultime parole dello schiavo, che spira tra le braccia del figlio del suo antico padrone, venuto a riscattarlo e riportarlo a casa, saranno di amore e di perdono.
 
Per uno scrittore come Baldwin l’intera operazione era un insulto: un libro «pessimo» sul piano letterario, rovinato da un «virtuoso sentimentalismo», con tutti i limiti del «romanzo di protesta», e di un uso ipocrita del cristianesimo. Quanto alla sua autrice, i suoi «occhi bagnati di lacrime» non lo convincevano neanche un po’ e sospettava che servissero a mascherare una «segreta e profonda disumanità».
 
Giudizi da rivedere, risponde oggi a Baldwin Henry Louis Gates Jr nella sua edizione annotata. È vero che la Stowe non riesce a nascondere la propria condiscendenza verso i neri neanche nei momenti di maggiore empatia; è vero che suggerisce a più riprese la loro inferiorità razziale; e anche che non si vergogna di usare gli strumenti del peggior melodramma vittoriano per raggiungere il suo scopo. Ma la qualità dei suoi dialoghi è «accurata fino alla precisione antropologica», le voci dei personaggi sono cariche di personalità, il romanzo nel suo insieme è «culturalmente capace», e la sua protesta commovente.
 
Anche John Updike sul «New Yorker», ammettendo di avere letto il romanzo della Stowe per la prima volta solo ora, concorda che è da riscattare. Scrive con ammirazione di trovare «il fervore dell’autrice contagioso», e anche «centrato, non una ma mille volte, il suo obiettivo politico di mostrare che lo schiavismo americano era un veleno che contaminava chiunque ne venisse a contatto». Anche se a metà della sua recensione racconta di aver cestinato la preziosa edizione annotata di Henry Louis Gates Jr, tanto era irritato dalla petulanza delle sue note, per godersi Zio Tom e la sua capanna in una vecchia edizione senza pretese.

Angela Davis, perché è comunista?
Prima di tutto io sono nera. Ho consacrato la mia vita alla lotta per la liberazione del popolo nero, il mio popolo asservito, imprigionato!
Io sono comunista, perché il motivo per il quale noi siamo costretti con la violenza a vivere miseramente, ad avere il livello di vita più basso di tutta la società americana, è in stretto rapporto con la natura del capitalismo. Se noi riusciremo un giorno ad emergere dalla nostra oppressione, dalla nostra miseria, se riusciremo un giorno a non essere i bersagli di una mentalità razzista, di poliziotti razzisti, dovremo distruggere il sistema capitalistico americano.

Bisognerà sopprimere un sistema nel quale si garantisce a qualche ricco capitalista il privilegio di continuare ad arricchirsi, mentre un intero popolo, costretto a lavorare per i ricchi, non può mai elevarsi in maniera sostanziale, e ciò vale soprattutto per i neri.
 

Sono comunista perché credo che il popolo nero, il cui lavoro e il cui sangue hanno reso possibile edificare questo paese, ha diritto ad una gran parte delle ricchezze che hanno accumulato gli Hugh, i Rockefeller, i Kennedy, i Dupont, tutti gli strapotenti capitalisti bianchi d’America.

Sono comunista perché penso che i neri non dovrebbero essere costretti a fare una guerra razzista e imperialista nel Sud-Est asiatico, dove il governo USA rifiuta con la violenza più inumana ad un popolo non bianco il diritto di autogovernarsi, esattamente allo stesso modo in cui, durante interi secoli, ha usato la violenza per sopprimerci.
 

La mia decisione di iscrivermi al gruppo Che-Lumumba, collettivo nero militante del partito comunista, deriva direttamente dalla mia convinzione che la sola via per la liberazione di tutti i neri è quella del rovesciamento completo e totale della classe capitalista e di tutti i suoi mezzi di oppressione. Il compito del gruppo Che-Lumumba è di organizzare i neri in funzione dei loro bisogni immediati; ma, allo stesso tempo, di creare un’armata di combattenti per la libertà che rovesceranno i nostri nemici.

Noi sappiamo che, per raggiungere questo scopo finale, dobbiamo unire le nostre forze a quelle degli elementi progressisti della popolazione bianca di America, che ha visto come noi la natura della bestia capitalista.

 

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