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Il governo mette le mani sul web, in nome dell’Europa contro l’Europa

Europa. Europa. Europa.
E’ il termine preferito dall’esecutivo italiano. Da ogni esecutivo. E’ la parola chiave carica di una istituzionalità intrinseca in grado di garantire ad ogni esecutivo il permesso di emanare anche provvedimenti dalle caratteristiche più dannose e dai principi più malsani.

Che l’Europa non c’entri nulla o che sia persino in opposizione a quanto legiferato dall’esecutivo in carica, è una questione di nessun valore.

E’ stato così per la proposta delle due aliquote fiscali, per la privatizzazione dell’acqua (che l’Europa riconosce come bene comune necessariamente pubblico), per la regolamentazione del conflitto d’interessi, per l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, per l’introduzione dell’energia nucleare e tanto altro ancora.
E l’improprio alibi "europeo" torna a farsi preponderante in questi giorni con la presentazione in Senato (per un parere consultivo di nessun potere vincolante) del decreto legislativo di attuazione della direttiva europea 2007/65/CE [PDF] sulle trasmissioni audiovisive approvato il 17 dicembre scorso in Consiglio dei Ministri.

Il cuore della direttiva europea in questione consiste nella definizione di misure ed obblighi di massima a cui tutti i sistemi radiotelevisivi di ogni nazione devono necessariamente sottostare (modalità di rettifica delle notizie, richiesta di autorizzazioni governative per la trasmissione di filmati, tutela rigida dei diritti d’autore ed altro ancora).

In questi giorni moltissime sono state le prese di posizioni a difesa o in opposizione al provvedimento italiano. Numerose, in particolare, sono state le critiche ad uno dei punti più delicati e controversi del provvedimento: l’introduzione delle web-tv e dei servizi di trasmissione multimediale in rete nell’elenco dei sistemi radiotelevisivi.

Una considerazione che, in assenza di normative chiarificatrici, rischia di impedire nei fatti l’utilizzo o lo scambio di materiale multimediale in rete. Anche l’utilizzo di uno spezzone di tg in un blog potrebbe costituire potenzialmente una violazione. Per non parlare dell’obbligo di rettifica per tutti gli organi di informazione on-line.

Il governo ha difeso la scelta dirottando ogni critica e responsabilità all’Unione Europea. Le opposizioni hanno gridato al "sistema illiberale". Gli organi di informazione hanno cavalcato lo scontro.

Ma un elemento di fondamentale chiarezza è mancato all’appello. Dell’informazione e della politica. L’aspetto principale dell’intera vicenda. Ovvero, cosa dice in realtà la direttiva europea tanto discussa?

La direttiva è un complesso di 29 articoli di modifica alla precedente direttiva del 1989. E, come ogni documento europeo ufficiale, è costituita da una premessa (importante tanto quanto la parte meramente legislativa) composta da diversi "considerandi": 68 in questo caso specifico.

E a dissolvere ogni dubbio vengono in soccorso 3 considerandi in particolare: il 15, il 16 ed il 21.

Il 15 recita quanto segue: "Nessuna disposizione della presente direttiva dovrebbe obbligare o incoraggiare gli Stati membri a imporre nuovi sistemi di concessione di licenze o di autorizzazioni amministrative per alcun tipo di servizi di media audiovisivi". Ciò che invece il governo si appresta ad introdurre per i sistemi di distribuzione audiovisiva in rete.

Il considerando "successivo" esplicita con chiarezza le realtà audiovisive a cui la direttiva si rivolge: "(La direttiva) non dovrebbe comprendere le attività precipuamente non economiche e che non sono in concorrenza con la radiodiffusione televisiva, quali i siti internet privati e i servizi consistenti nella fornitura o distribuzione di contenuti audiovisivi generati da utenti privati a fini di condivisione o di scambio nell’ambito di comunità di interesse".

Eppure, stando a quanto stabilito dal decreto di dicembre, nei vincoli rientrano tutte quelle attività che anche in rete che mettono a disposizione materiale audiovisivo "a carattere non incidentale". Canali come Youtube o Youreporter necessiterebbero di apposite autorizzazioni alla pubblicazione del materiale (e si scontrerebbero con vincoli sul diritto d’autore e identiticabilità del "fornitore" del servizio). Fattori che l’UE nel Considerando 16 esclude categoricamente.

Infine, la normativa sull’obbligo di rettifica. Il decreto impone ai telegiornali trasmessi in rete (non meglio specificati), oltre alla formale registrazione, l’obbligo di rettificare eventuali notizie lesive per qualcuno entro 48 ore dalla richiesta della "parte lesa", nella stessa fascia oraria e con lo stesso rilievo dato alla notizia.

Il considerando 21, invece, recita: "L’ambito di applicazione della presente direttiva non dovrebbe comprendere le versioni elettroniche di quotidiani e riviste".

L’utilizzo di verbi condizionali in un considerando può essere percepito come la concessione di una profonda libertà di interpretazione. E il governo, in questo senso, ha dato l’ennesima prova di fantasia e creatività.

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