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I provvedimenti condivisi

Nel suo recente incontro con la classe politica di Roma e del Lazio Benedetto XVI ha auspicato «provvedimenti condivisi» da parte dei governanti nella ricerca del bene comune.
 
Certamente non sono parole pronunziate ex cathedra dal pontefice e perciò tali da far intervenire il dogma della sua infallibilità; questo dovrebbe autorizzare il vostro reporter ad una, sia pur rispettosissima, critica di dissenso. Sappiamo tutti che abbiamo fra i nostri antenati gli inventori della democrazia, ossia i greci dell’antichità; parte da loro questa critica.
 
I greci ponevano al primo posto nella fondazione di una polis, ossia di una città, quella che chiamavano politeia, che si traduce costituzione, ossia il suo ordinamento. Detto per inciso questo è anche il titolo di un famoso dialogo di Platone, poi, chissà perché, latinizzato in Repubblica. La più bella definizione di cittadino la troviamo in Aristotele: «Cittadino in senso assoluto non è definito da altro che dalla partecipazione alle funzioni di giudice ed alle cariche (ossia all’assemblea che governa la città)».
 
E’ evidente che la politeia di una Nazione, insieme delle regole di partecipazione alla vita pubblica, deve essere stabilita e condivisa da una grandissima maggioranza dei suoi cittadini e, su questa tipologia di provvedimenti, l’esortazione del pontefice alla massima condivisione non è in alcun modo criticabile. Per maggior chiarezza il riferimento è a quelle che vengono indicate oggi come riforme istituzionali.
 
Passando, però, alla forma di democrazia rappresentativa, quale è la nostra, le cose, per i provvedimenti successivi alla definizione delle Istituzioni, cambiano. I cittadini, infatti, formano mediante il proprio voto una classe politica, che si suddivide in maggioranza ed in opposizione sulla base del consenso elettorale ricevuto; la maggioranza ha il compito di governare, l’opposizione ha quello di controllare e di sollecitare la maggioranza. Dunque, lo stato di quella che i greci chiamavano polemos, ossia guerra, fra maggioranza ed opposizione non solo è auspicabile, ma anzi è necessario per il buon governo della cosa pubblica.
 
Quando questo non accade, se ne deduce che la democrazia è fallita e si è pervenuti ad una sua forma degenerativa di oligarchia, in cui la classe politica indistinta esercita il suo dominio sul popolo; e ciò farà non nell’interesse di quest’ultimo, bensì nell’interesse suo proprio, ossia dei propri figli, delle proprie mogli, dei propri clientes, ivi comprese le proprie amanti, e così via. Possiamo considerare questo insieme di familismo e di clientelismo politico una vera e propria forma di degenerazione oligarchica della democrazia.
 
Su questo argomento il Meridione d’Italia ha ampia esperienza: proprio in questo, e non in altro, consiste l’essenza della questione meridionale. La classe politica nata nel Meridione nel dopoguerra ha lentamente ma inesorabilmente prodotto la degenerazione familistica e clientelare della democrazia, approfittando anche ampiamente dell’appoggio della Chiesa di Roma, distratta perché impegnata nel contrastare l’ideologia atea comunista nel periodo della cosiddetta guerra fredda. Da questo il degrado civile, morale ed economico della regione. Ed è per questo motivo che costruire ponti sullo stretto di Messina, formare Casse per il Mezzogiorno, creare banche per il Sud, far arrestare e condannare un numero sempre maggiore di esponenti della criminalità organizzata, sono tutte misure sostanzialmente inutili dal punto di vista della soluzione della questione meridionale, ad esse sostanzialmente indifferente.
 
Non sono assolutamente un male la lotta e la polemica politica, anzi sono necessarie; purché esse avvengano all’interno di regole condivise della partecipazione alla vita pubblica. Da ciò la critica del vostro reporter alle parole di Benedetto XVI, dette nell’incontro con gli esponenti politici di Roma e del Lazio.

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