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Cronaca di un’assemblea aziendale del 2050: utopia?

Il più anziano dei Custodi di un’azienda, in occasione del termine del mandato del Demiurgo che per dieci anni ne è stato ispiratore e tutore, ripercorre le tappe fondamentali della storia dell’economia degli ultimi cinquanta anni e così si rivolge a tutti i lavoratori dell’azienda riuniti in Assemblea generale.

Amici.
 
In qualità di Custode più anziano della nostra azienda è mio compito riferirvi il giudizio del Consiglio dei Custodi sull’operato, ora giunto al termine, del nostro Demiurgo che dieci anni fa avete eletto affidandogli la tutela della nostra azienda. Egli, senza mai tradire la fiducia che gli avete accordato, è stato rispettoso delle regole di governo. Regole che da cinquanta anni ci siamo dati e grazie alle quali siamo riusciti a risolvere i conflitti che continuamente incontravamo trasformandoli in energie positive ed entusiasmo. 
 
La gran parte di voi non ha vissuto gli anni in cui incombeva la paura del domani, l’insicurezza, la demotivazione esistenziale e non ha esperienza di cosa significhi lavorare senza saper dare una risposta alla domanda: ”Che senso ha?”.
 
Solo pochi fra di voi hanno conosciuto le difficoltà nel rapportarsi agli altri, nell’affrontare i conflitti, nel riconoscersi nell’azienda per cui lavoravano e nei suoi obiettivi. Sono pochi, ormai, coloro che possono raccontare di anni in cui coloro che guidavano le aziende, anziché essere condottieri, usavano il secco comando senza rendersi conto che privavano coloro che lavoravano al loro fianco di ciò di cui allora, come oggi, avevano bisogno: il riconoscimento del loro lavoro.
 
Sono comunque loro che dobbiamo ringraziare per aver saputo trovare la strada per uscire dal pantano in cui eravamo immersi anche a causa di quell’arcaico stile di governo. Diciamo grazie a quei pionieri perchè hanno saputo mettere in discussione il loro ruolo di imprenditori autocratici per cercare una soluzione alla lotta che per secoli ha contrapposto i padroni ai lavoratori senza mai che né gli uni, né gli altri fossero riusciti a gioire intimamente per il loro lavoro.
 
Per i lunghi anni che ho trascorso in questa azienda quale Custode dei nostri valori e delle nostre leggi, riconosco che siete una comunità che mai avrei immaginato di trovare quando, giovane, entrai per la prima volta in questo luogo in cui il lavoro era espressione della maledizione biblica anziché ragione primaria del nostro esistere. Da quel tempo abbiamo fatta molta strada ed ora posso dire, senza esitazione che siete uomini e donne che hanno saputo conquistare il senso della responsabilità e la comprensione del significato della parola condivisione e per questo i vostri figli riceveranno da voi un’eredità migliore di quella che i nostri padri hanno lasciato a noi.

I nostri padri!

Li veneriamo per ciò che hanno fatto ma anche per ciò che non hanno potuto fare, perchè noi tutti abbiamo ormai la consapevolezza del significato profondo delle parole dell’Ecclesiasta: “Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo”. Sappiamo che i nostri padri non avrebbero potuto comportarsi diversamente giacchè in quel tempo così doveva essere ed era impensabile una forma diversa di governo delle aziende.
 
Poi la coscienza iniziò a formarsi intensamente ed arrivò il tempo in cui apparve chiaro il profondo significato di quella espressione prima incomprensibile: “Il lavoro non è merce”.
 
Fu facile comprenderla e tradurla in un nuovo modo di concepire il rapporto fra lavoro e remunerazione. Fu intelligibile a tutti che se il lavoro non può essere remunerato, giacchè è pura espressione spirituale del nostro essere e ragione fondamentale della nostra esistenza, ciò che ci si doveva attendere per sostenere i nostri bisogni erano i frutti del nostro lavoro e non un salario o uno stipendio dissociato dai risultati di quella che era un’attività comune.
 
Già allora alcuni pionieri del nuovo modo di intendere il lavoro iniziarono a costruire la nostra attuale civiltà sulle ceneri del comunismo e del capitalismo.

Civiltà che ci vede tutti a coltivare i campi delle nostre aziende, dissodandoli e seminandoli con impegno, per raccoglierne i frutti e dividerli non secondo assurdi principi di equalitarismo socialista ma in nome della condivisione rispettosa dei bisogni fondamentali di ogni uomo, senza disconoscere nel contempo i maggiori meriti individualmente acquisiti ed altresì senza tradire le legittime aspettative dei finanziatori che ci hanno accordato la loro fiducia.
 
La storia ci racconta di anni in cui persone ed organizzazioni economiche irresponsabili carpivano la buona fede di risparmiatori per ottenere indebiti guadagni e di organizzazioni politiche conniventi, di anni in cui anche per questo sembrò che le speranze per un futuro migliore fossero perse e con esse tutti i valori che nel corso dei millenni l’umanità aveva conquistato.
 
Poi, quasi per incanto, quei pochi coraggiosi si moltiplicarono avviando la riprogettazione dei capisaldi dell’economia iniziando col domandarsi: “Quale profilo avrà il ruolo dell’imprenditore nel 2050? Quale ipotetico diverso rapporto intercorrerà fra l’azienda e i lavoratori nel 2050?” e scoprirono che occorreva cercare la risposta attraverso il dialogo ed il rinnovamento delle capacità di pensiero.

Furono anni di rinascita.

Ci si confrontava sui nuovi ruoli necessari per un corretto governo delle attività, sul significato di bisogno e di merito, sulla misurazione dei risultati individuali e di gruppo, sulla funzione di coloro che sino ad allora erano stati capi senza conoscerne profondamente le implicazioni, sul significato della parola etica.


E si iniziò a scoprire che l’osservazione della natura avrebbe aiutato a trovare le risposte.
 
In questo furono aiutati da Goethe e dai filosofi moderni e classici, il cui pensiero, nelle epoche in cui vissero, non era contaminato dal materialismo e dalla rivoluzione industriale.

Presero coscienza che per formare una comunità realmente coesa era necessario definire al suo interno unità lavorative il cui numero di componenti non potesse essere tanto elevato da impedire il dialogo, il confronto, la condivisione degli obiettivi e la loro misurazione affidata a loro stessi.

Scoprirono che quei gruppi di lavoratori non avevano bisogno di un capo gerarchico, ma di un’altra figura che stesse al loro fianco per aiutarli a mantenere la rotta e traguardare le mete, che ne coordinasse gli sforzi per non disperderli, che individuasse con loro le lacune e i percorsi di crescita individuali e collettivi.
 
Compresero inoltre che i frutti del lavoro di tutti, i profitti aziendali, andavano ripartiti in modo tale che una parte servisse per lo sviluppo dell’azienda, una parte per compensare i finanziatori, una terza per dare a ciascuno ciò di cui necessità per vivere secondo principi di uguaglianza ed una quarta quale riconoscimento per l’impegno maggiore di alcuni rispetto ad altri.
 
Ma compresero nel contempo che questa ripartizione doveva essere decisa da loro stessi giacchè, se fossero ricorsi ad una figura diversa, si sarebbero indeboliti e sarebbero ritornati indietro agli anni in cui dipendevano anziché essere autonomi.

Capirono che con grandi sforzi avrebbero dovuto imparare a superare gli egoismi e che avrebbero dovuto rimettere le decisioni alla loro comunità di appartenenza perchè solo così questa sarebbe restata unita e sarebbe cresciuta in scienza ed esperienza.
 
Studiarono anche i comportamenti tribali e la storia delle comunità antiche, riprendendo il cammino della condivisione che l’umanità aveva interrotto il giorno in cui in nome dell’efficienza produttiva la macchina era subentrata all’uomo, annichilendolo.
 
Ora finalmente avevano creato le condizioni per ricollocare l’uomo al posto giusto.

Ogni azienda iniziò a ricercare al suo interno qualcuno che per talento e per equilibrio sapesse essere il Demiurgo dell’azienda con il compito di mai intervenire se non quando un gruppo di lavoro ne avesse invocato la presenza o l’aiuto per poi essere lasciato libero di decidere responsabilmente.

Non fu facile individuare quegli uomini, giacchè l’attitudine al comando era radicata e difficilmente discutibile e molti tentativi non ebbero successo. Ma un po’ alla volta i più illuminati compresero che la storia aveva scritto la fine del loro tempo e che avrebbero dovuto ridefinire se stessi: capirono che un conto era la loro figura di detentori di capitali investiti nell’azienda, l’altra era quella di accompagnatori dello sviluppo di uomini liberi che tali mezzi valorizzavano con il loro lavoro.
 
Sono molti oggi coloro che stanno egregiamente svolgendo il loro ruolo come colui che ci ha accompagnati negli ultimi dieci anni e che ora si appresta a ricoprirne un altro fra di voi lasciando quello di Demiurgo a chi riterrete il più adatto a garantire il rispetto dei nostri valori, delle nostre leggi, delle nostre capacità autorganizzative insieme a tutti i tutori dei gruppi di lavoro.
 
L’illustrazione dei risultati economici dell’ultimo periodo sono nelle vostre mani.
 
I membri del Consiglio dei Tutori parlino per voi.
 

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