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Cina SpA: la nuova economia inizia e finisce qua

Ted Fishman è l’esperto americano che ha scritto uno dei migliori reportage sull’economia cinese.

Il libro “Cina Spa. La superpotenza che sta sfidando il mondo”, è uscito nel 2005 ed è ancora un’opera essenziale per chiunque desideri operare o lavorare nel nuovo continente economico (www.nuovimondimedia.it). Naturalmente i numeri indicati sono ormai datati e vanno tralasciati, ma vanno approfondite le questioni fondamentali e si può affermare che molte società americane ed europee considerano ancora la Cina come “un posto dove i costi di gestione e di manodopera possono essere tenuti al minimo. Il prossimo paradosso storico potrebbe essere il fatto che proprio quelle società americane ed europee insegnino alle società cinesi come utilizzare quella stessa manodopera docile e accondiscendente per guadagnare un vantaggio competitivo nei loro confronti nel panorama del mercato planetario” (p. 64). Forse gli occidentali dovrebbero imparare a produrre meno e meglio, senza affidare i propri segreti professionali e progettuali a terzi incomodi che sono troppo distanti dalla nostra cultura economica incentrata sul diritto commerciale.

Bisogna poi aggiungere che i cinesi di oggi non amano la natura e gli animali. Inoltre i burocrati di partito e gli affaristi più egoisti e maneggioni sono i veri padroni nelle varie regioni. L’inquinamento dilaga come nei peggiori incubi cinematografici e accade molto spesso che gli abitanti delle città sfruttino la povertà dei contadini come nel peggior sfruttamento di classe ipotizzato da Marx. La strategia stalinista di finanziamento dell’industria attraverso lo sfruttamento dell’agricoltura e la schiavizzazione degli agricoltori ha dato comunque i suoi amari frutti: negli anni ’90 il prezzo del grano calò del 30% e le tasse agricole triplicarono, obbligando molto cinesi a trasferirsi nelle città per diventare una massa informe di manodopera nullatenente, affamata e ricattata (Duncan Green, 2009, p. 171). Ancora oggi nella provincia del Guangdong, un’area industriale che cresce molto velocemente, le donne delle fabbriche di abbigliamento fanno 150 ore di straordinario ogni mese, il 60% di loro non ha un contratto scritto e il 90% non ha una copertura assistenziale in caso di licenziamento (D. Green, 2009, p. 144).

Inoltre “la fede di Mao nella rivoluzione continua ha punito i cinesi che si aspettavano una stabilità nel modo di governare e nella società. Confuciani, democratici, fascisti, marxisti di ispirazione sovietica, insegnati, proprietari terrieri, contadini, uomini d’affari e operai: tutti hanno vissuto in periodi in cui un giorno si rispettavano le regole, per poi scoprire il giorno dopo che proprio queste avevano portato al disastro. La Cina è un paese nel quale la gente ha imparato a più riprese che sono le regole a dispensare catastrofi, mentre trovare il modo di aggirarle è l’unico modo per poter sperare e avere una propria dignità. Dunque è normale che i mercati centrali delle città cinesi, dove la gente compra abiti, prodotti musicali, film, macchinari e software, appaiono agli stranieri come concentrati di merce rubata, in cui tutti i prodotti consolidati e riconoscibili del mondo sono contrabbandati in un modo quasi impensabile” (p. 265). E il governo cinese difende gran parte di questi truffatori. Infatti chi troverà mai il coraggio di mettersi contro più di un miliardo di persone?

Comunque la Cina è anche la dimostrazione lampante che il terzo millennio ha dato vita alle prime generazioni di giovani che hanno accumulato molta più conoscenza rispetto alle generazioni più anziane. Quindi in un futuro sempre più prossimo i giovani più capaci, ambiziosi e meritevoli possono ambire alla conquista dei pieni poteri economici e addirittura di quelli politici.

Così i cinesi e i loro governanti si danno molto da fare e invece noi italiani come al solito ci affidiamo alle nostre vecchie stelle. Invece sarebbe molto meglio rammentare che la qualità della vita e anche “la colpa non è nelle nostre stelle, ma in noi stessi che ci affidiamo a esse” (William Shakespeare, Giulio Cesare).

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