SONO PASSATI TRE ANNI ESATTI da quando scrissi per loro,per i loro ruggiti d’oro ecco oggi cosa RE-pubblica Antonio Rezza ed io aggiorno:
QUARANTENA. IL TEATRO IN STREAMING: MENTRE LA SINISTRA CAMBIA NARICE, LA DESTRA CAMBIA CANALE
di Antonio Rezza
Quando dalla quarantena spuntavano i primi provvedimenti sul reintegro dei lavoratori di ogni settore e non faceva capolino alcun accenno sul teatro, sullo spettacolo dal vivo, sugli assembramenti musicali e sul supremo interesse collettivo, all’inizio anch’io, nella mia approssimazione, ho fatto ricorso alla retorica della difesa dei più deboli, di coloro che, chiudendo i luoghi d’incontro, avrebbero sofferto maggiormente. In principio si è sempre timorosi e si cerca nella condizione altrui un supporto per manifestare e dissentire. La mente umana è nata per deludere. Andando avanti, il dilemma è divenuto esistenziale; dopo un paio di mesi mi sono accorto che il governo dei mandriani non proferiva parola alcuna a difesa della libera espressione, dell’interpretazione, della sacralità dello spazio teatrale che è vecchio come la tradizione orale e immortale come il pregiudizio.
Questo silenzio autoritario delle così dette istituzioni fa capire come l’arte si sia lasciata comperare da chi impone. Senza giri di parole. Il governo, non c’è parola che ne rappresenti meglio l’esercizio, come se i sottoposti fossero bestie e il governante il pastore che le indirizza dove vuole un altro, è stato chiaro da principio: i teatri resteranno chiusi fino a tempo indefinito. Così i musei e ogni luogo di possibile incontro e di eventuale occupazione. Dopo di che continui proclami a tutela di ogni classe sociale, elemosine di Stato agli indigenti e compassione a buon mercato difficilmente razionale, perché anche il commercio resta in ostaggio del cautelato allarme. Chi decide non ha speso una parola nei confronti del talento; in un paese dove il primo profitto è l’arte del passato e dove la curiosità degli stranieri è stuzzicata dalle opere dei defunti talentuosi, i vivi di oggi che saranno i morti di domani, non vengono neppure nominati; gli stessi vivi che involontariamente porteranno profitto a chi vivrà in futuro, sono abbandonati come animali in autostrada. I morti godono privilegi che i vivi del presente non otterranno se non morendo adesso. Si è parlato a malapena delle riaperture delle pinacoteche, io parlo a nome mio e di tutti quelli che prima di stare insieme son rimasti soli: le gallerie hanno le opere di chi ha avuto il privilegio di trapassare prima. Ma su chi si esprime adesso, indipendentemente dal valore artistico, nemmeno un’allusione, trattati come sozzura, come fantasmi, più infetti dello stesso virus, monatti senza portafoglio, affossati dalla dimenticanza e dal distacco. E scrivo questo non certo per ispirare tenerezza. Quando in televisione ho visto i parrucchieri protestare, i baristi reclamare, i tolettatori per cani rivendicare la propria economia, ho capito che uno dei paesi più ricchi di storia dell’arte è il luogo che meno merita i favori dei geni trascorsi.
Il mondo del teatro è troppo colluso con i finanziamenti per
rivendicare la posizione estrema di chi si lamenta, la paura foraggia la
cautela, potrebbero arrivare meno soldi domani, è meglio stare in
silenzio e attendere che riaprano le chiese, se si attivano i luoghi di
culto possiamo spalancare anche le sale. Il teatro si è affidato a Dio
pur di non scoprire il fianco trafitto. Lo Stato ha imbavagliato
la cultura con il denaro e adesso non la riconosce, come ogni puttana
posseduta dal pappone che la sottomette. La distanza sociale, termine
fascista e ottuso, toglie a me l’emozione del palco e non c’è somma che
possa risarcirmi. Qualcuno accetterà di esibirsi in teatri semi
vuoti con la scusa di medicare le ferite a chi resiste, e mentre io
penso alle lesioni mie, c’è chi millanta lo sdoganamento dello
spettacolo dal vivo nelle reti a pagamento. E nel frattempo i ministri
della cultura propongono un nuovo modo di fare regia, con i personaggi
staccati di due metri, finalmente lo Stato corona il suo sogno
attraverso il virus, lo Stato diventa Ronconi, assurge a drammaturgo, dà
le direttive per una regia senza rischi. E’ come se io riscrivessi la
legge di bilancio che non è sicuramente nelle mie competenze. Nessuno
può entrare nel gesto artistico e decidere cosa fa l’autore, è ovvio che
questo già accada attraverso i sovvenzionamenti ministeriali, ma lì
almeno i soldi camuffano l’arroganza del padrone.
Ma venire comandati addirittura senza emolumenti, con la riduzione delle sale e con il fremito svanito, è veramente sconveniente. E intanto la Regione da il via alle riaperture dei set cinematografici, le star potranno interagire ed essere a contatto, la pellicola non contagia, il teatro sì, a nessun regista di cinema viene imposto di girare una scena senza baci, ma in teatro gli attori devono parlare con il viso rivolto dalla parte opposta, sul proscenio il bacillo non perdona. E gli attori della celluloide, anche quelli che inneggiano col pugno alzato sulle passerelle veneziane, stanno in silenzio, blindati nella loro roccaforte che garantisce immunità. A questo punto inviterei gli interpreti del grande schermo, che spesso per ripulirsi l’anima si affidano alla prosa, a non salire più su un palcoscenico oppure a rinunciare al privilegio infausto di potersi esprimere quando ad altri è precluso.
Inventiamo un altro modo di fare la regia, proclamano i ministri
dell’altrui cultura, riscriviamo le regole della messa in scena
attraverso criteri che prevedano la malattia. E il teatro prezzolato
abbassa la testa perché così conviene, le corporazioni si rifugiano
nella fatalità, le prove degli spettacoli sono bandite, quando arriverà
il benestare sulla riapertura, tutti di corsa a provare in dieci giorni
per approntare lo spettacoluccio parrocchiale in grado di assicurare le
famose sovvenzioni. Quindi dopo un anno di virus e morte ci aspetteranno
due anni di brutti spettacoli mal provati e peggio realizzati. Certo il
tolettatore ha più diritti, tra cinquant’anni si scriverà come
tolettava bene. Verranno dall’universo a vedere le tolettate nei musei,
il parrucchiere farà i colpi di sole al passato e del futuro rimarrà la
chioma in lontananza di chi scappava per paura di perdere lo scalpo. E
poi i ristoratori, i bar, i lavasecco, gli ottici, i fornai, i
meccanici, le baby sitter, ognuno tutelato dall’ipocrisia mentre a chi
va su un palco non è concessa neanche quella.
La cosa più beffarda è stata il non aver diritto alla menzogna del
governo, non ai soldi ma almeno alla bugia. Chi non mente su di te è
perché non ti prevede, non ha coscienza del tuo turbamento e ti sotterra
con l’indifferenza. E allora come sfuggire a questa persecuzione
silenziosa? Rinunciando alla cattiva compagnia. Che vuoi che me
ne faccia dell’appoggio di chi ha svenduto il teatro allo Stato in
cambio dell’elemosina ministeriale? Come può aiutarmi chi ha smesso di
comporre per diventare il commercialista di se stesso onde giustificare
le entrate che il dicastero favorisce? A che mi serve il sostegno di chi
va nei centri di accoglienza a fare uno spettacolo contro le mafie e
poi gestisce il suo teatro con la politica degli scambi che
rappresentano la mafia istituzionale? Che ausilio posso ottenere da chi
sale su un palco e si mette a leggere affossando il senso dell’azione
scenica e sfruttando un sistema produttivo che istiga alla pigrizia e
alla lettura di chi è morto?
L’artista che legge scava la fossa tra sé e chi morendo gli ha inflitto
l’esercizio, tu leggi un morto che lo Stato protegge non in quanto
artista ma in quanto trapassato. La scelta è dolorosa: allearmi con
tutti quelli che simulano cultura pur di rivendicarne l’esistenza,
coalizzarmi con i miei nemici per ottenere un ritorno alla normalità
(che poi sarebbe il venire sopportato da coloro che ho appoggiato)
oppure fare scempio di ciò che mi circonda e protestare per causa
personale? A costo di angosciarmi ancor di più, io manifesto per il mio
interesse e non volendo vado in soccorso di chi non merita conforto.
Qui non si tratta di proteggere i più deboli, qui si difende l’idea unitaria e imparziale del privilegio non concesso. Gli
autori del teatro dovrebbero rinunciare al finanziamento statale delle
loro opere, mai come stavolta. Si chiama obiezione di coscienza e una
volta funzionava. Il ministero deve tenere in vita le sale e pagare il
personale, ma non può stipendiare l’artista per il suo operato, e non
deve elargire fondi straordinari per comprare il silenzio. Oggi ancor di più, visto che l’arte non è stata riconosciuta in nessun editto di governo. E
l’artista sappia resistere alle lusinghe di chi non lo contempla perché
di proprietà. Quando avevo qualche dubbio mi domandavo “Artaud avrebbe
mai chiesto i soldi allo Stato?” la risposta è no, e allora il problema
non si pone. Tutti devono avere il coraggio di ribellarsi a chi
li rifocilla ma non li identifica. Mai come ora. Mai come domani. Se il
cinema è più ricco non merita per questo corsie preferenziali, non
riconoscere l’esistenza del teatro mette in difficoltà me come individuo
e non una cooperativa di indecisi ed erogati. Chi vuole stare al mio
fianco lo facesse con il suo, a due passi di distanza, rispettando le
regole fasulle che fanno un isolato ogni tre metri.
Difendiamo la nostra individualità come pratica ascetica e di
condotta elementare. Contro manipoli di consociati che si mettono in
offerta, al pari di animali randagi alla deriva. Io voglio che lo Stato
riconosca la mia esistenza di vivo che crea opere originali e che
identifichi tutti quelli che faranno la storia irripetibile dell’arte.
Non soldi ma gratitudine e umiltà di protocollo di fronte a chi si
esprime con virtù. E sono tanti ancora in vita, sono gli stessi
che sento in silenzioso affanno indecisi se affossarsi o affondare con i
compari di cordata. Io esigo il rispetto della mia ossessione, non
toletto i cani ma faccio quello che mi piace, non chiedo soldi al
ministro che mi è debitore, farò scuola da defunto ai miei
contemporanei. Ma avrò tempo per forzare il condotto, la morte è più
lunga della vita e il mio bastone è intriso di saggezza.
Tutti dovremmo avere il coraggio di non andare in scena con la
riduzione delle sale. Io voglio l’emozione intatta, l’eccitazione che il
dipartimento fa fatica a comperare. Per chi si è già venduto
in bocca al lupo e in culo alla balena. Anche se la parte della balena
la sta facendo il drammaturgo. Mi consola sapere che i cani hanno avuto
più attenzioni, l’artista non è nemmeno una bestia, io che per anni ho
pensato di essere il miglior amico dell’uomo, scopro di non essere
neppure un terranova, mi si toglie la possibilità, mi si strappa il
diritto alla fedeltà intellettuale e mi si scippa dalle palle anche il
padrone.
E intanto si affacciano proposte assurde, spostare gli spettacoli sulle reti televisive, luogo contaminato dove chi non piega la schiena viene fatto fuori, come se l’etere fosse il paradiso dell’imparzialità, portare in casa ciò che è mansueto, fare del teatro una fiera domestica che fa la cacca all’aperto, rendere l’attore un eunuco che entra nei salotti senza nemmeno far toletta. Declassare la tecnica a ricreazione per gente che appassisce nella propria abitazione, in segregazione agevolata, fare dell’arte la badante dello spirito, il naufrago delle emozioni, spremere il drammaturgo dal sofà, col telecomando nella mano e la caccola nell’altra. Pulirsi il naso mentre il teatro entra nell’alloggio come un senzatetto. Esse esse o non esse esse, questo è il problema, i ghetti sono appena aperti, stavolta non si brucia né si muore con il gas. Sarà la famiglia il topicida del domani. Case di concentramento dove ognuno è kapò. Con la dispensa piena e lo stesso dito che scaccolava poco prima a premere sul telecomando perché inizia lo spettacolo teatrale. Sarà una lettura fatta da un attore assai affermato. Poggio la caccoletta e sprofondo sul divano. Si apre il sipario. Bisogna lottare per una riapertura senza vincoli, magari tutti vicini con le maschere e i guanti fino al collo, se proprio vogliamo esagerare. Ma tutti insieme, perché esibirsi per una persona sì e due no cancella la storia e frammenta l’energia. Il teatro è antico come Dio. Ed in più esiste. Mentre intanto la caccoletta nella mano sinistra s’indurisce. Che non lo sappia mai la destra.
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