In parte sono d’accordo con te: pubblicare quel nome, almeno fin quando non ci saranno sviluppi ulteriori che possano consolidare almeno un po’ la sua posizione, è inopportuno. Repubblica e Corriere, secondo me, hanno fatto bene a toglierlo. Ma è diverso, molto diverso fare una scelta discutibile come quella e violare la deontologia.
Del resto, la cronaca su indagini per crimini di sangue si è sempre fatta, giustamente, così. Si fa così ovunque, anche con i nomi dei sospettati. Poi magari prima non c’era Facebook e non si poteva mettere in piedi un linciaggio di massa disgustoso come questo. Vogliamo ridiscutere la deontologia professionale in vista del fatto che la rete rende molto più identificabili e rintracciabili le persone che scelgono di esserlo? Bene, parliamone. Ma non risolveremo così il problema. Che dipende dalla formazione culturale degli italiani, non dalla cronaca: quando si capì che Breivik, per la carneficina che aveva commesso, avrebbe potuto essere condannato al massimo a 21 anni di carcere, ci furono più reazioni indignate in Italia che in Norvegia.
L’unica soluzione è culturale: contrastare la mentalità vendicativa e rancorosa di una certa Italia. Molti di quei commenti minacciosi sarebbero altrettanto indegni anche se quell’uomo fosse stato condannato.
Noi dobbiamo essergli solidali, per il linciaggio che ha subito, in ogni caso. Ma lui non può prendersela con i giornalisti, che nei suoi confronti sono stati estremamente garantisti (com’è giusto che sia ma raro che succeda). E comunque, colpevole o innocente, dovrà spiegare lo stesso perché, quando i poliziotti sono andati a prenderlo per chiarire la sua posizione in merito a una delle più brutte stragi degli ultimi anni, invece di seguirli in questura per spiegare come stavano le cose, si è dato alla fuga. Quei commenti non li meriterebbe nemmeno il peggiore dei colpevoli. Ma fuggire quando qualcuno indaga su di te non è esattamente il modo migliore per sembrare innocente.