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Alcoa di Portovesme: quando l’Italia dismette il suo passato

Di poetto (---.---.---.161) 17 febbraio 2010 11:49

 Quello che maggiormente ha distrutto i lavoratori è la mancanza di prospettive future, la mancanza di alternative lavorative certe che possano rimpiazzare la perdita di quell’impiego.

Perdere il lavoro, in Sardegna, a quaranta o cinquant’anni, significa non avere prospettive, se non proprio scarsissime, di un nuovo e sicuro impiego.

Significa, troppo spesso, vivere alla giornata, cercare di sbarcare il lunario nei modi più disparati.

I dipendenti di Portovesme sanno che la prospettiva futura è grigia, sanno che le possibilità di trovare una sistemazione lavorativa degna di questo nome, nella Sardegna di oggi, è esile come un fuscello.

Se ci fossero alternative valide a quella perdita allora la disperazione, perché di questo si tratta, non ci sarebbe, non ci sarebbero stati i viaggi a Roma, le manifestazioni sulla 131, il blocco dell’Aeroporto di Cagliari, non ci sarebbero state tutte quelle manifestazioni, invece la realtà è che finito quel lavoro le speranze di trovarne un altro nella zona, o in zone vicine, sono molto scarse.

La crisi economica ha ucciso in Sardegna un’economia già sofferente da tempo.

Bisognerebbe ripensare allo sviluppo economico della Sardegna, dare nuove priorità e nuove vie di sviluppo.

Pensare al turismo, stare maggiormente attenti alle necessità dei turisti.

Valorizzare le realtà dell’interno.

Molti monumenti non sono neanche segnati nella cartellonistica stradale.

Tanti, all’infuori della Sardegna, non conoscono e neanche sanno cosa sia, ad esempio, il nuraghe Losa.

Tendendo conto che, in Sardegna, l’industria sta crollando su se stessa, occorrerebbe ripensare ad uno sviluppo diverso, compatibile con la realtà locale e con le esigenze della popolazione del posto.


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