• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Cultura > "Un cavallo da corsa in un mondo senza piste": la storia di Sylvia (...)

"Un cavallo da corsa in un mondo senza piste": la storia di Sylvia Plath

Le vite di due poeti, Sylvia Plath e Ted Hughes. si intrecciarono circa cinquant’anni fa. Si sposarono ed ebbero due figli. Quando la storia finì, Sylvia decise di suicidarsi.

Questa è la storia di questa unione, ancora adesso, a distanza di tanto tempo, oggetto di rivisitazioni ( anche cinematografiche- v. il film del 2003 di Christine Jeffs "Sylvia" con Gwyneth Paltrow e Daniel Craig) e polemiche.

Sylvia Plath nasce il 27 ottobre del 1932 a Jamaica Plain, un sobborgo di Boston.
 
Suo padre Otto Emil Plath è uno stimato entomologo e un eccellente linguista Incontra la madre di Sylvia, Aurelia Schober, di ventun anni più giovane, appartenente ad una famiglia austriaca emigrata nel Massachusetts, durante in corso di tedesco alla Boston University e le sposa nel gennaio del 1932. Dopo due anni e mezzo nell’aprile del 1935 nasce il fratello di Sylvia, Warren Joseph.
 
Poco tempo dopo la nascita del secondo figlio, Otto Plath si ammala di diabete mellito, ma rifiuta di sottoporsi a cure mediche, fino a quando nel 1940, è costretto a farsi amputare una gamba. Poco dopo muore per embolia polmonare.
 
Sylvia dirà che la morte del padre segna la fine della sua infanzia e di ogni felicità.
 
Sylvia, sotto gli occhi della madre, alla quale è legatissima, dimostra subito, sin dai primi anni della sua adolescenza il suo talento di poetessa.
 
A 12 anni incomincia a pubblicare le sue poesie in una rivista scolastica.
 
A diciotto anni, dopo 49 rifiuti, pubblica un racconto: “E l’estate non tornerà di nuovo” .
 
Tre anni dopo vince una borsa di studio ed un soggiorno di un mese a New York come redattore inviato (guest editor) della rivista femminile “Mademoiselle”.
 
Tornata a Boston dalla madre, partecipa agli esami di ammissione ad un corso di scrittura, ma non viene scelta. Per la delusione entra in uno stato depressivo. Uno psichiatra le prescrive un ciclo di elettroshock, che le vengono praticati senza anestesia.
 
“Poi qualcosa calò dall’alto, mi afferrò e mi scosse con violenza disumana. Uiii-ii-ii-ii, strideva quella cosa in un’aria crepitante di lampi azzurri, e a ogni lampo una scossa tremenda mi squassava, finché fui certa che le mie ossa si sarebbero spezzate e la linfa sarebbe schizzata fuori come da una pianta spaccata in due. Che cosa terribile avevo mai fatto, mi chiesi”.
 
La terapia non funziona.
 
Sylvia, un giorno, rimasta sola a casa, scende in cantina con un flacone di 50 pillole e dell’acqua. Rimane lì per tre giorni, finchè non la ritrovano i familiari, che l’hanno cercata dappertutto, senza sospettare che si trovasse a pochi metri di distanza. Ha vomitato tutto, non morirà, ma rimarrà legata a questa esperienza di iniziazione alla morte.
 
Tornata a studiare e laureatasi, si trasferisce in Inghilterra, a Cambridge, dove ha vinto una borsa di studio.
 
Qui conosce il poeta Ted Hughes e lo sposa.
 
E’ per lei l’inizio di un periodo di felicità e di sogno.
 
Il sogno di un sodalizio amoroso e letterario. Le sembra possibile coltivare insieme il suo amore per la poesia e quello per Ted. Anzi le sembra che un amore possa alimentare l’altro.
 
Nel 1957 le viene offerto, a soli 25 anni, un incarico di insegnamento negli Stati Uniti, così rientra a Boston con Ted.
 
Dimostra subito un enorme talento didattico, ma l’impegno per la preparazione delle lezioni le sottrae l’energia necessaria a comporre le sue poesie. Con il totale appoggio del marito e nell’incredulità di amici e conoscenti, rinuncia all’incarico per l’anno successivo e rimette la poesia in testa all’elenco delle sue priorità.
 
Nel 1960 con Poem for a Birhday, sette poesie scritte all’avvicinarsi dei suoi 27 anni, ritorna sui tre giorni trascorsi nella cantina e sull’esperienza della malattia.
 
Pensa di avere vissuto una specie di “morte rituale”. Che adesso però le appare lontana, sia perché aspetta il suo primo figlio ( e quindi “ospita” una vita) sia perché ha ripreso a scrivere. Gode intensamente quindi un periodo di rinascita sia dal punto di vista biologico che artistico.
 
Scrive:

“Presto, presto la carne/ che il severo sepolcro ha divorato/ tornerà al suo posto su di me,/ e sarò una donna sorridente./ Ho 30 trent’anni soltanto./ E come i gatti ho nove volte per morire.

Ted e Sylvia tornano in Inghilterra dove nasce la prima figlia: Frieda Rebecca.

Ma i demoni tornano a visitare Sylvia.

Ho un buon io che ama i cieli, le colline, le idee, i piatti saporiti, i colori brillanti. Il mio demone vorrebbe ucciderlo”.

Il marito commenterà anni dopo la sua fragilità: “Sembrava un’invalida, tanto era priva di protezioni interiori”.

Nel 1962, dopo un aborto avvenuto l’anno prima, mette alla luce il suo secondogenito, Nicholas Farrar ( anche lui morto per suicidio pochi mesi fa). Ted e Sylvia vivono in una casa di campagna nel Devon. La tensione tra i due arriva a livelli altissimi e giunge al suo culmine quando appare Assia Gutman.

Più vecchia di Sylvia e di Ted (è del 1927) Assia, berlinese ha sposato l poeta canadese David Wevill e con lui si è appena trasferita a Londra dove Assia lavora per un’industria pubblicitaria.

Il caso vuole che Assia e David affittino l’appartamento degli Hughes, in procinto di trasferirsi in campagna.

I due vengono invitati dagli Hughes per un fine settimana nel Devon.

Tra Ted ed Assia scoppia il colpo di fulmine.

Sylvia scopre subito la relazione.

Ecco un brano della poesia ‘Parole sentite, per caso, al telefono’, che descrive il momento dell’amara scoperta ( Assia telefona per parlare con Ted, ma alla risposta di Sylvia, simula una voce maschile così goffamente da farsi scoprire)

… che cosa sono queste parole, queste parole?
Cadono con un plop fangoso.
Oh dio, come farò a pulire il tavolino del telefono?….
….Ora la stanza sibila. Lo strumento
ritira il suo tentacolo.
Ma la poltiglia che ha deposto cola nel mio cuore. È fertile.
Imbuto di sozzura, imbuto di sozzura – ….”
 
Cacciato di casa il marito (che va prontamente vivere con Assia), Sylvia rimane in campagna con i due bambini e le sue arnie (è, nel frattempo, sulle orme del padre, diventata una buona apicultrice).

Il grigio inverno inglese aggiunge depressione al dolore per il tradimento del marito.

Nel diario scrive: Come sogno la primavera! Mi manca la neve americana, che se non altro fa dell’inverno una stagione pulita, eccitante, invece di questi sei mesi di seppellimento tra il tempo umido, la pioggia e il buio: come i sei mesi che Persefone doveva passare con Plutone”.

Riprende a scrivere, con ansia febbrile, quasi sempre scegliendo le ore dell’alba in “quell’ora azzurra, silenziosa, quasi eterna che precede il canto del gallo, il grido del bambino, la musica tintinnante del lattaio che posa le bottiglie”.

Il dolore è quasi insopportabile, come quasi insopportabile è la bellezza delle poesie che scrive in questo periodo.

Uno stato di grazia che ancora una volta per lei rappresenta una specie di ritorno alla via.

Scrive ad un’amica: Roba incredibile, era come se la vita da casalinga mi avesse soffocata. Sentivo come un tappo in gola. Ora che la mia vita domestica è nel caos, faccio vita spartana, scrivo con addosso la febbre alta e tiro fuori cose che avevo chiuse dentro da anni, mi sento sbalordita e molto fortunata”.

Rivedendola a distanza di tempo dalla separazione, Ted è colpito dalla sua disperata lucidità. Leggendo le sue ultime poesie trova conferma di questa impressione. Scrive: ”Sylvia è il poeta sciamano. In poesia penetra fino a profondità riservate in passato ai sacerdoti dell’estasi, agli sciamani, ai santoni”.

Le ultime poesie hanno toni funesti. La morte compare continuamente come un appuntamento difficilmente eludibile, come un richiamo al quale è impossibile sottrarsi.

Ecco come chiude la poesia Specchio:

Su me si china una donna
cercando in me di scoprire quella che lei è realmente.
Poi a quelle bugiarde si volta: alle candele o alla luna.
Io vedo la sua schiena e la rifletto fedelmente.
Me ne ripaga con lacrime e un agitare di mani.
Sono importante per lei. Anche lei viene e va.
Ogni mattina il suo viso si alterna all’oscurità.
In me lei ha annegato una ragazza, da me gli sorge incontro
giorno dopo giorno una vecchia, pesce mostruoso.

Nel 1963 decide di tornare a Londra, non ce la fa più a tollerare l’isolamento in campagna.

E’ l’ultima stagione creativa: pubblica, con lo pseudonimo di Victoria Luca “The Bell Jar” (La campana di vetro).

E’ la storia, scopertamente autobiografica, di Esther, diciannovenne di provincia, che si avventura in una grande città dopo aver vinto un soggiorno offerto da una rivista di moda. Intorno a lei, come una campana di vetro, una specie di involucro soffocante che le toglie l’aria e soffoca ogni sua capacità di reazione l’America spietata degli anni ’50, ipocrita, maccartista e ottusamente benpensante che la fa sentire “come un cavallo da corsa in un mondo senza piste”.

L’uscita del romanzo sembra l’avvio di una nuova rinascita:Vivere separata da Ted è meraviglioso, non sono più nella sua ombra ed è fantastico essere apprezzata per me stessa e sapere quello che voglio. Magari chiederò anche in prestito un tavolo per il mio appartamento all’amica di Ted… I miei bambini e scrivere sono la mia vita, e che loro si godano pure le loro storie d’amore e i loro party, pfui!”

Prende molti antidepressivi e continua a perdere peso, con grande preoccupazione del suo medico, dottor Horder.

Scrive alla madre: “Adesso vedo com’è tutto definitivo, ed essere catapultata dalla felicità mucchesca della maternità nella solitudine e nei problemi non è certo allegro”.

Fa progetti di vita e di lavoro : “Adesso i bambini hanno più che mai bisogno di me e per i prossimi due o tre anni andrò avanti a scrivere la mattina, a passare con loro il pomeriggio e vedere amici o studiare e leggere di sera”.

Un mattino si alza all’alba, come al solito, porta la colazione (pane e latte) nella stanza dei figli, spalanca la finestra della loro camera e sigilla le fessure della porta con nastro adesivo ed un asciugamano.

Poi va in cucina, sigilla meticolosamente tutte le fessure, poi infila la testa nel forno e accende il gas.

Un solo un breve messaggio “Per favore, chiamate il signor Horder”.

Commenti all'articolo

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares